In questi giorni, in cui tanti hanno voluto scrivere un commento sulla prematura scomparsa dell’attore Robin Williams, mi sono chiesta, a lungo, se provare anche io ad aggiungere qualcosa. Poi ho pensato che tanto era già stato detto e forse era più interessante ragionare sul significato della vita e su come oggi ci rapportiamo alle questioni filosofiche ad essa connesse, piuttosto che cercare di entrare nel disagio di un singolo uomo. E provo a farlo, supportata da un testo che è diventato un fenomeno internazionale del passaparola e che ha ricevuto brillanti recensioni dal Financial Times, dal Guardian e dall’Observer. Si tratta di “Filosofia per la vita e altri momenti difficili” scritto da Jules Evans, direttore del Centro per la storia delle emozioni presso l’Università Queen Mary di Londra. Nelle stimolanti pagine del libro, l’autore ripercorre in chiave attuale la storia della filosofia da Epitteto a Musonio Rufo, da Eraclito a Epicuro, da Socrate a Seneca per trovare all’interno delle teorie di ogni singolo autore un modo per affrontare le situazioni più difficili da affrontare nella quotidianità: dai turbamenti di un giovane figlio di alcolizzati al superamento dei disagi di uno studente universitario, dalla storia del sindaco di Vancouver Sam Sullivan a quello della soldatessa Rhonda Cornum, medico militare americano nella prima Guerra del Golfo (cercate le loro storie sul web o sul testo di Evans). Un termine torna con frequenza: relisilienza. La capacità di superare situazioni in cui solo la libertà di pensiero consente di estraniarsi da una condizione inaccettabile (pensiamo alle torture di un combattente catturato dai nemici) e di sopravvivere, mantenendo la propria dignità di essere umano e la propria libertà. Di andare avanti nella consapevolezza che nessuno può privarci della nostra identità, anche nei frangenti più estremi. Tutto questo presuppone il ritorno ad una concezione primordiale della filosofia, in cui alla teoria si affiancava la pratica, alla riflessione, l’esercizio fisico. Nell’antichità si definiva áskesis in greco. “La concezione greca della filosofia come áskesis – spiega Evans – fu fatta propria dai primi cristiani, i quali praticarono molte tecniche di allenamento spirituale: addestrarsi ad essere consapevoli, tenere un diario di riflessioni, migliorare l’autocontrollo..”. Quello che mi interessa di questo approccio (al di là delle testimonianze citate nel libro, spesso molto estreme), è lo stimolo a tornare ad interrogarsi sui grandi temi: qual’è il significato della vita? Perché siamo qui? Siamo d’accordo con lo scienziato Stephen Hawking quando afferma la filosofia è morta perché i filosofi non hanno “tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica e della biologia.”? Se concordiamo, dovremo allora accodarci alla sua massima, secondo la quale dovremo semplicemente perseguire il valore più alto delle nostre azioni, privilegiando, in un’ottica sociologica, quelle organizzazioni che aumentano la probabilità di sopravvivenza. In pratica un’approccio darwiniano.
Hawkins, seguendo i principi della fisica moderna ritiene che nel cosmo non esista la risposta al perché esistiamo, ma solo al quesito “in che modo?”. “Ma tale modo di vedere il mondo – spiega Evans – non può esimere dal cercare di rispondere a due domande relative alla coscienza umana: come e perché? Prima di tutto, quello che i filosofi greci chiamano l’arduo problema: come fa la coscienza a svilupparsi dalla materia inanimata? (…) E, in secondo luogo, perché esiste la coscienza umana? Perché gli umani hanno questa capacità, questo desiderio di riflettere sull’universo e sul posto che in esso occupano?Che senso ha tutto ciò?”. Possiamo, seguendo l’autore, passare attraverso quattro tipologie di risposta. Dal diniego totale espresso dai fisicalisti all’approccio funzionalista che ritiene la coscienza semplicemente un processo utile alla sopravvivenza. Da chi sostiene che sarebbe un sottoprodotto di caratteristiche adattive del nostro cervello, cioè una scoperta casuale, a chi la ritiene una forma di materia o di forza che la fisica quantistica non comprende ancora, ma che poi entrerà nella teoria generale. E poi potremmo dibattere se la coscienza riguardi solo gli essere umani o anche gli animali e fino a che punto. Una cosa emerge. L’insoddisfazione per questa tipologia di risposte incomplete e la voglia di fare filosofia. “Il campo di studi che si occupa della coscienza – aggiunge Evans – offre un meraviglioso esempio di come le scienze e le discipline umanistiche possano impegnarsi e andare di pari passo, e quanto sia ancora vitale la filosofia, al contrario di quel che si dice”. Quello che ritengo interessante di tutta questa discussione, infatti, è la discussione stessa. L’esigenza di tornare a riflettere sulle grandi questioni che, ogni tanto, finiscono in secondo piano. “Esiste, vi assicuro – diceva Marco Tullio Cicerone – un’arte medica per l’anima. Si tratta della filosofia, il cui aiuto non va ricercato, come nelle malattie del corpo, fuori da noi stessi. Dobbiamo sforzarci, con tutte le nostre risorse e tutta la nostra forza, di diventare capaci di curare noi stessi”. Si tratta di un percorso. Spesso complesso e difficile. Che può trovare risposte tanto dentro noi stessi che in una realtà trascendente. O può non trovarne, rendendo, talvolta, la vita molto difficile da essere vissuta. E talvolta insostenibile. Buon viaggio Robin Williams.