“La Chiesa è chiamata ad uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria”. È il cuore dell’intervento di Jorge Mario Bergoglio, il 9 marzo del 2013, alle Congregazioni generali prima del Conclave. E il programma del suo pontificato. 



Una Chiesa  in cammino, “in uscita”, come Gesù nei villaggi di Galilea, tra tutto e in mezzo a tutti; capace di stare “in mezzo” ai grandi processi della storia, senza voltare lo sguardo dall’altra parte; capace di prendere parte a decidere cosa sia di Dio e cosa sia di Cesare, cosa si debba all’uomo e al “potere”; ma altresì una Chiesa che non dimentichi mai che il Signore non è solo nei grandi processi della storia, ma anche in chi è rimasto ai bordi della strada, la pecora smarrita dalla storia del gregge, grande o piccolo che sia. Per questo il cristiano non può restare chiuso né nelle sue chiese, né nel suo cuore. Non può accettare la riduzione alla “privatezza” ecclesiale o devozionale della sua fede. 



Questa fede va portata nel mondo, con fiducia anche negli insuccessi; non del suo proselitismo che non le appartiene (e dirlo in tempi di califfato e di persecuzioni marca l’appartenenza a un’altra epoca dell’autocomprensione delle religioni, l’unica possibile oggi), ma del suo esempio e della testimonianza, della sua “attrattività”. Perché come Francesco ricorda agli amici del Meeting con le parole di Giussani, il destino, cioè Qualcuno, che è Colui che per i cristiani conta, non ha lasciato solo l’uomo – cioè gli uomini, anche quelli che non gli hanno creduto e non gli credono. Se il centro è Gesù, puoi decentrarti senza paura, anche dei tuoi insuccessi: “Non siamo noi a salvare il mondo. È solo Dio che lo salva”. 



I tempi sono quelli che sono, di grande “tristizia”. Qualcosa in più della tristezza, una mestizia del cuore, che è tentata di arrendersi, di omettersi dal mondo: per i cristiani sarebbe un venir meno, un peccato di mancanza di fede, di fiducia, in quello che di bello e di grande hanno da raccontare: che Cristo c’è, è venuto, che in giro nel mondo – anche di quello di oggi, di un individualismo che ha i tratti di un nichilismo istituzionalizzato, e di un potere che fa di tutto per cancellarne le ragioni – c’è l’amore per l’uomo.

È questo che scrive Francesco alle donne e agli uomini del Meeting. E che la desertificazione spirituale è certo terribile, ma il deserto è anche il luogo dove cresce la sete di quel Dio d’amore per gli uomini, nonostante tanti facciano di tutto per avvelenarne i pozzi.

C’è una serena “committenza” di pensiero e di azione che il Papa fa al Meeting, in cui ritorna il magistero di Giussani: la fermezza di un confronto con i tempi che ci sono; ma anche la certezza di una fede che vi si mette in gioco in un incontro intenso del reale che, scendendo nel profondo del suo moto, oltre la cresta dell’onda di quel che appare, sappia leggervi le opportunità che restano all’uomo. Che poi sono quelle dell’umanità che Dio vi ha voluto porre. Magari nella crisi anche cognitiva di una realtà per cui spesso non abbiamo neppure ancora una concettualità adeguata, bisognerà anche avere la saggezza di rallentare il passo, la “pazienza del concetto”: comprendere senza ansia. Certo anche però senza pigrizia. E questo è un impegno a tutto tondo nel programma del Meeting di quest’anno, in questo cammino per una Chiesa in uscita, con Francesco.

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