Con l’espressione “nuovi diritti” ci si riferisce solitamente a quei diritti, sempre più numerosi, che in questi ultimi decenni sono stati rivendicati socialmente e hanno ottenuto (o sono in via di ottenere) riconoscimento pubblico nell’ambito delle strutture politiche occidentali. Spesso tale riconoscimento è effettuato, ancor prima, da parte di organismi giurisdizionali, sia nazionali (specie della Corte costituzionale), sia sovranazionali (Corte europea dei diritti dell’uomo) o dell’Unione europea (Corte di giustizia). 



Alcuni “nuovi diritti”, tuttavia, si sono rivelati fortemente divisivi o tali da turbare le coscienze di molti: si pensi al diritto all’unione tra persone dello stesso sesso, al diritto di decidere sulla fine della propria vita, al diritto di abortire, al cosiddetto “diritto al figlio”. 



Eppure, soprattutto a partire dagli anni 70 del secolo scorso, sembrava che tutti ponessero una grande fiducia nel fatto che il “linguaggio dei diritti” sarebbe diventato una sorta di lingua franca del discorso pubblico globale, tale da superare vecchie barriere, non solo quelle tra laici e cattolici, ma anche tra le culture dei vari Paesi: ogni persona, in ogni parte del mondo, a prescindere dalla cittadinanza o dalla legislazione del suo Stato, si sarebbe visto riconoscere “diritti” che tutti sarebbero stati d’accordo nel rispettare in quanto fondati sulla “dignità” dell’uomo.



Oggi sembra che sia stata inaugurata l’epoca dei “diritti contro”: polemiche e reazioni, talvolta addirittura manifestazioni di piazza, dei sostenitori di un diritto contro quelli di altri diritti. Spesso, di fronte alle divisioni, si assiste a inerzia legislativa, cui segue inevitabilmente il ricorso al giudice, a cui non è consentito non decidere e le cui sentenze vengono, perciò, attratte nel dibattito etico e politico. D’altro canto è proprio del “linguaggio dei diritti” trovare la sua naturale espressione nell’ambito giudiziale, che dovrebbe fungere da motore dell’utopico processo di condivisione di valori che si è detto, anche contro le supposte resistenze “conservatrici” della politica.

Nella convinzione che questa situazione, come ogni dato di realtà, non debba essere trattato come un nemico da combattere, ma come una provocazione cui rispondere, credo occorra prima di tutto capire di che cosa si tratti realmente, scoprire quale sia il “positivo” del “linguaggio dei diritti”, quale il fascino che ha portato alla sua progressiva affermazione, ma anche quale sia il “negativo”, quali le ambiguità che hanno consentito che si arrivasse dai diritti “propri dell’uomo” ai diritti dell'”uomo contro l’uomo”.

Da qui l’opportunità di un dibattito che sveli il funzionamento di questo linguaggio e le trappole ideologiche che può nascondere: che guardi ai vantaggi, ma anche ai rischi occulti dietro l’apparente facilità e innocuità del suo uso, dietro il “mito del diritto mite”.

Due sembrano le sfide che ci attendono. 

La prima è rendersi conto che il “linguaggio dei diritti” concentra l’attenzione sul valore che un determinato bene ha per l’individuo o il gruppo titolare del diritto stesso, ma non dice “a chi” impongo “che cosa” e in che “modo”. Non dice, cioè, quali perdite comporti, non solo quantitative (economiche), ma anche e soprattutto qualitative (in termini di perdita di libertà altrui o compressione di altri diritti). Occorre, perciò, riportare il dibattito su quello che la “retorica dei diritti” oscura: soprattutto il costo “qualitativo” del riconoscimento di un diritto.

La seconda sfida è più sottile, ma forse ancora più importante. Il crollo del “mito del diritto mite” e la conclamata emersione del “conflitto tra diritti” farà inevitabilmente nascere una nuova esigenza su cui potrebbero manifestarsi nuove apparenti convergenze tra cosiddetta “cultura laica” e “cattolica”: quella di ritornare al dibattito sui “valori”, al dibattito sui “fondamenti del diritto”. Esigenza certamente positiva, ma che comporta un nuovo fatale  rischio da cui bisogna guardarsi: evitare la riduzione integrale della morale al diritto. Si potrebbe cioè passare da un eccesso all’altro: dalla completa autonomia del diritto dalla morale, imperante nel secolo scorso, alla completa identificazione del diritto con la morale (un ritorno all’antico, ma nella veste di una morale laica maggioritaria o addirittura elitaria e non più religiosa). Quale morale, infatti, si affermerà nel diritto? E, indipendentemente da questo, può la morale ridursi totalmente a diritto? Tutto deve essere diritto?

Credo occorra avere consapevolezza della violenza connessa al carattere coattivo del diritto, da limitare, perciò, ai soli casi in cui il suo intervento è necessario per difendersi dalla violenza altrui, lasciando alle altre dimensioni (morale, religiosa, sociale e personale) dell’umano uno spazio più ampio, da coordinare con il primo. Penso, infatti, che tra le diverse forme di “corruzione” da cui il Papa mette in guardia, in quello stupendo libro che è Corrupcion y pecado (tradotto in italiano con il titolo Guarire dalla corruzione), possa farsi rientrare, accanto alla corruzione tradizionale, cui siamo soliti riferirci, anche questa “corruzione dei diritti”, diritti visti come un assoluto, nuovi idoli che, come è stato detto dello Stato liberale secolare, vivono di presupposti che non sono in grado di garantire.