Siamo alla fine di un’estate che non è mai decollata, pronti a sequestrare un raggio di sole smarcato da nuvole e fulmini. Inseguiamo uno scorcio di bel tempo, da riempire con oziosi e inutili pensieri. Vogliamo una vacanza vera, quella con il caldo opprimente che ti frigge il cervello e ti impedisce qualsiasi attività intellettuale degna di rispetto. Eppure c’è chi ci dà il tormento. Chi insinua nel nostro meritato scampolo di agosto senza pioggia il tarlo che rosicchia il cassetto dove abbiamo temporaneamente riposto la coscienza. 



È sempre lui, Francesco, il Papa che le vacanze le fa nell’habitat naturale (nel linguaggio bergogliano si traduce con “casa propria”), dormendo, pregando e dormendo, cercando di recuperare forze spese, in maniera apparentemente dissennata, in un ministero che non conosce misure. Ancora una volta il pontefice argentino invece di scivolare via tranquillo nell’ultima udienza generale d’agosto, con una catechesi senza scosse, ha picchiato giù duro. Ancora una volta aveva in mente la sua Chiesa, la Chiesa di Cristo, Una e Santa, che “prende origine dal Dio Trinità”, mistero di comunione, la Chiesa fondata su Gesù. Ancora una volta ha raccontato e testimoniato un Dio che non abbandona mai, che non lascia soli, che cammina con gli uomini per capirli e consolarli. Ancora una volta insomma ha fatto il parroco di campagna: si accorge che le cose non vanno tanto bene e dà a tutti una bella ripassata. 



A cosa e chi pensava Bergoglio quando ha parlato dei peccati contro l’unità? Certo non solo alle infinite ramificazioni cristiane, a quel corpo lacerato nei secoli da dispute e ripicche teologiche,  anatemi e scismi, ambizioni e scalate al potere. Lo ha detto lui stesso. Volava molto più basso e quindi, decisamente, più in profondità. Pensava ai “peccati parrocchiali”. Non una nuova categoria di infrazioni morali, tipo non far tintinnare il giusto euro nella cassetta delle candele elettriche o far squillare il telefonino con l’ultimo tormentone estivo durante la consacrazione, o ancora mettere le scarpe infangate sopra l’inginocchiatoio in similpelle. 



No, qui si tratta di veri e proprio peccati contro l’unità e la santità della Chiesa. Ieri mattina il Papa pensava al luogo di condivisione e comunione che dovrebbe essere una parrocchia, trascinato nelle beghe da soap opera da fedeli infarciti di sentimentalismi e reazioni da reality show. C’è chi ci ha già pensato a raccontare il microcosmo sacro attraverso le telecamente perennemente “on”. Segno che evidentemente non si smette di essere uomini, quindi limitati, miseri, peccatori solo oltrepassando il portico di un tempio o accendendo qualche candela. Anzi esperto in vita e umanità, papa Bergoglio ha fotografato certi interni ecclesiastici, dove il parroco viene strattonato da beghine, perpetue e sacrestani (o la versione più moderna e stilosa di costoro), e dove certi consigli pastorali diventano disfide all’arma bianca, occasioni per risse e contese ad alto rischio.

Il Papa ha raccontato le parrocchie in cui molti di noi hanno messo piede (e spesso abbandonato di corsa): ring in cui si coltivano invidie, gelosie e antipatie, vasche di allevamento per fedeli spennati da chiacchiere e giudizi da bar. Insomma non proprio luoghi edificanti. Qualcuno potrebbe sbuffare, lamentando una certa tendenza all’esagerazione e all’iperbole. In realtà basta dare un’occhiata alle nostre comunità per riconoscere alcune nevrastenie clericali. Anche nelle parrocchie si punta ai primi posti, al mettere al centro se stessi o la propria particolarissima visione ecclesiale, si cercano spazi per gratificare la propria ambizione e imporre idee o ideologie, obiettivi facili su cui scaricare le proprie insoddisfazioni. Si giudica e spesso senza appello. Papa Francesco ha invitato ad un esame di coscienza, ricordando che proprio la divisione è uno dei peccati più gravi per quel popolo per cui Cristo sulla croce ha offerto la sua sofferenza. 

Insomma che posto occupa nella nostra fede quel “che siano una cosa sola” di evangelica memoria? Non bisogna chiederselo una settimana l’anno, quando si prega insieme ai fratelli separati di altre confessioni cristiane, ma tutti i giorni quando si passa dagli uffici parrocchiali e si evita la catechista molesta, il responsabile degli scout con cui si è discusso per le date delle prime comunioni o le signore del rosario che passano ai raggi x chiunque capiti nel loro raggio visivo (mi sono sempre chiesta come fanno a non perdere il ritmo delle Avemaria e allo stesso tempo non perdere un colpo su chi entra ed esce, sulle mise indossate e sul tempo di permanenza nell’ufficio del parroco). Stiamo attenti, non sono quisquilie, c’è di mezzo il diavolo. Sempre Bergoglio ha ricordato che è nella natura del maligno separare, rovinare i rapporti, insinuare pregiudizi. E pare si diverta molto quando riesce a farlo proprio tra il gregge del Buon Pastore. Le nostre chiese dovrebbero essere il luogo dove crescere nella capacità di accogliere, perdonare e volersi bene. Questo ha chiesto il Papa. Nulla di più o di meno che la santità. “Una chiesa che si riconosce ad immagine di Dio, ricolma di Misericordia e Grazia”.  

Eppure spesso sembrano le succursali delle riunioni di condominio. Potrei raccontare della suorina che mi ha redarguito in fila per la comunione perché avevo una spalla scoperta. Mi ha dato un’occhiataccia che mi porterà ad indossare la versione cattolica del burka vita natural durante. Ma non sarei abbastanza sincera se non ricordassi anche le tante, troppe volte, che ho dato, insieme ad amici di fede, giudizi affrettati su altri cristiani, magari attratti, cresciuti e pasciuti in carismi lontani da quello che mi ha afferrato. Credo sia utile ciò che sta facendo Francesco: scortica la nostra appartenenza ecclesiale, purifica il nostro vivere da cristiani, cerca la verità e l’autenticità del credere. Vuole una conversione quotidiana e ci accompagna nel lavoro da fare. Bisogna solo dargli retta.  

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