Cosa insegnano i Testimoni di libertà che hanno chiuso il Meeting 2014? Oltre a raccontare le loro vicende, nelle varie periferie del mondo, cosa comunicano a noi occidentali i Bhatti, i Warduni e i Kaigama? Il caso iracheno, in particolare, una cosa molto semplice: la minoranza cristiana, con il suo carico di opere imprenditoriali, sociali ed educative (dalle quali, riguardo a queste ultime, spesso esce la classe dirigente araba di molti Paesi mediorientali), costituisce un fattore di ricchezza e pluralismo per la nazione che le ospita da prima dell’avvento dell’islam. La difesa di questa presenza non va identificata con una battaglia identitaria, ma coincide con la difesa di reali spazi di libertà e sviluppo per tutta quell’area. Un impegno della comunità internazionale, e in particolare dell’Europa, dovrebbe avere a cuore questo orizzonte d’azione.



C’è poi un altro importante significato insito nel dramma dei nostri fratelli perseguitati. Siano essi pakistani, iracheni o nigeriani. Ed è un pungolo per l’impegno di quanti, come chi scrive, tentano di vivere la propria appartenenza cristiana in politica. Specie per coloro che vedono la Chiesa come dato antecedente alla nostra esistenza specificamente occidentale, finendo per identificare con il bene del proprio popolo la sopravvivenza delle sue antiche forme civili e sociali. Il rapporto del cristiano con il potere, così, finisce per poggiare – com’era per i pagani – sulla canonizzazione della consuetudine.



I cristiani iracheni, nigeriani o pakistani, al contrario, dicono che il rapporto con il potere è irrimediabilmente segnato dal martirio. Non è un caso se Papa Wojtyla indicò in Tommaso Moro il patrono dei politici. L’appartenenza alla Chiesa, alla civitas caelestis, relativizza qualunque progetto di potere che pretendesse di meritare «una sollecitudine d’ordine supremo», come scrisse l’allora cardinal Ratzinger, e per questo rende i cristiani «comunità di stranieri» all’interno di uno stesso contesto nazionale (cfr. L’unità delle nazioni, Morcelliana, pp. 101-111). E «ciò si mostra nel fatto che la Chiesa è per essenza Chiesa di martiri». Che non vuol dire esclusivamente comunità di vittime ingiustamente sacrificate, bensì che «la forma della sofferenza» è quella in cui vive la realtà ecclesiale per il suo «servizio alla verità», opposto al «culto politico», e il suo «dir di no alle potenze che determinano l’opinione pubblica».



Ratzinger approfondisce questo tema in un altro suo testo: L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore. «Sulla scorta di quanto si è detto, acquista di nuovo importanza una dottrina cristiana di cui nel nostro secolo si è a stento parlato. Essa è espressa nell’affermazione paolina: “La nostra patria è nei cieli” (Fil 3,20)» (p. 74). 

Prosegue il Papa emerito: «È da molto che non si citano più tanto volentieri questi passi, perché essi sembrano allontanare l’uomo dalla terra e distoglierlo dai suoi doveri, anche politici, nel tempo e nella storia. “Fratelli, rimanete fedeli alla terra!” ha proclamato Nietzsche nel nostro secolo; e l’imponente fenomeno del marxismo, in tutte le sue correnti, ci ha ficcato bene in testa l’idea che non abbiamo tempo da perdere per il cielo. Per dirla in termini che riecheggiano un motto brechtiano: lasciamo dunque il cielo ai passerotti. Noi invece occupiamoci della terra, cercando di renderla abitabile» (p. 75).

Tuttavia, spiega ancora Ratzinger, «La destinazione all’altra patria non aliena, bensì è in realtà il presupposto a che noi – e gli Stati in cui viviamo – si possa prosperare, conservandosi essenzialmente “sani”. Se infatti gli uomini non hanno da attendersi nient’altro che ciò che questo mondo offre loro, e se tutto ciò non lo possono o debbono chiedere che allo Stato, essi si distruggeranno da se stessi ed insieme annichileranno anche qualunque spazio di convivenza. Se non vogliamo cadere di nuovo preda del totalitarismo, dobbiamo alzare lo sguardo e guardare più in alto che lo Stato, che è una parte e non la totalità. La speranza nei cieli non è nemica della fedeltà alla terra: è speranza anche per la terra» (p. 76).

Noi, cristiani occidentali in politica, onoreremo davvero il sacrificio di questi nostri fratelli iracheni, pakistani e nigeriani quanto più sapremo qualificarci come «comunità di stranieri», anche all’interno delle formazioni scelte, dando più credito a quella sana insofferenza per il non sentirsi mai a casa piuttosto che ad una militanza ideologicamente condivisa.

E quella sulle minoranze perseguitate, per lo meno da parte nostra, non sarà solo retorica se sapremo trasformare la nostra mentalità, privilegiando una sensibilità per il vero alle scelte dettate dall’opinione comune o dalla impazienza di “piazzare prodotti sul mercato” delle offerte politiche. Saremo in unità con i cristiani perseguitati se non poggeremo il nostro agire solo sull’attesa del riconoscimento di questo o quel capo bastone. Se alla crisi in atto nella nostra parte di mondo risponderemo con nuovi criteri di giudizio che rompano la consuetudine instauratasi nell’agone politico. Se alle nuove sfide sapremo rispondere con logiche differenti da quelle consuete. Se sapremo uscire dal mero schema dell’alternativa unica, per cui ogni questione cruciale deve dividere in “favorevoli” o “contrari”, entrando invece nel merito abilitati unicamente dall’Incontro con quella realtà che già nella storia introduce quell’altra patria. 

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