Si chiama Frank Van Den Bleeken, ha 52 anni, e rappresenta un fatto nuovo nella giurisprudenza del Belgio: stupratore seriale e assassino, dopo anni di inutili richieste, ha in queste settimane ottenuto dal Servizio federale pubblico per la Giustizia il consenso all’eutanasia, risultando afflitto da una “sofferenza psichica insostenibile” che lo ha portato ad affermare, con grande dolore, di non essere un uomo libero e di rappresentare un pericolo per la società in quanto, se potesse uscire dal carcere, sicuramente rifarebbe di nuovo quello che ha già fatto, ossia stuprare e uccidere. L’uomo, quindi, verrà nei prossimi giorni scortato dalla prigione di Bruges ad un ospedale vicino e lì, dopo essersi congedato dai propri familiari, permetterà ai medici di ucciderlo con la “dolce morte”. 



Dinnanzi all’opinione pubblica tutto questo sembra “giustizia”, dinnanzi agli strenui difensori del valore della vita la vicenda – invece – appare come un’altra tappa nell’affermazione lenta ed inesorabile di un nuovo totalitarismo che riduce l’esistenza ad un patrimonio a disposizione dell’individuo e della società. Difficile entrare in un argomento del genere senza sollevare polemiche o porre osservazioni “scottanti”, eppure di fronte a una storia come questa emergono – come macigni – due certezze e due domande da lasciare alla riflessione comune di tutti per non fermarsi al “partito preso”, per provare ad andare oltre le interpretazioni e ritrovare i fatti.



Anzitutto la constatazione più amara: c’è un uomo su questa terra che si chiama Frank Van Den Bleeken, che non è in pace, che ha una consapevolezza di sé allo stesso tempo lucida e disturbata. In molti campi, oggi come nell’epoca classica dell’Occidente, l’equilibrio psichico viene assunto a meta ultima dello sviluppo umano, a obiettivo desiderabile per vivere in modo sostenibile le complessità dell’esistenza. In realtà nessuno dice che l’equilibrio, ossia l’equidistanza da tutto quello che siamo e che abbiamo dentro, è solo una mera utopia: ciò che siamo o lo si accoglie e lo si integra nella nostra personalità oppure lo si rifiuta, lo si respinge e lo si abbandona. Van Den Bleeken ha fatto proprio questo: ha deciso che quella parte terribile di sé, che bussava alla sua porta attraverso un atroce impulso al male e alla violenza, non era una parte con cui si poteva vivere, non era qualcosa da ascoltare, da comprendere e da curare. Era solo l’incarnazione di tutto quello che lui non voleva essere. 



Risuona profetica, lo capite benissimo, quell’espressione di Gesù che stabilisce che l’uomo è destinato ad amare l’altro come ama se stesso. Van Den Bleeken non è riuscito ad amarsi, non è riuscito a incontrarsi e a perdonarsi, e ha quindi permesso che questa tremenda parte di sé crescesse da sola, abbandonata, incapace di essere davvero accompagnata e fatta maturare. 

A nessuno sfugge il risvolto patologico della vicenda e, pertanto, la fragilità dell’individuo di fronte a se stesso, ma tutto questo non è sufficiente perché anche per lui – come per ogni uomo sulla terra – non diventasse possibile l’esperienza della riconciliazione, l’unica esperienza davvero capace di guarirci in profondità e che il cristianesimo ha reso perfino un sacramento. Solo l’amore guarisce. 

E l’altra certezza di questa storia è che, nella vita di Van Den Bleeken, di amore ce n’è stato poco. Orfano, rinchiuso fin da piccolo in un istituto per malattie mentali e privato in giovinezza di ogni libertà, Frank ha smesso ben presto di essere un uomo, un figlio, un amico. Ed è diventato un caso da risolvere, un uomo fragile da temere e da “tenere a bada”. Dalla sentenza del Servizio federale pubblico del Belgio per la Giustizia chi esce davvero sconfitto è l’amore, ossia quella capacità che una comunità – divenuta nell’epoca moderna “Stato” – deve avere per curare soprattutto quegli esseri più deboli e più facilmente “scartabili” dalla società, affinché la loro esistenza, pur nell’oscurità del loro mondo interiore, possa essere significativa e piena. 

Davanti a Frank lo “Stato” si è arreso, i suoi fratelli si sono arresi e hanno accettato di considerarlo uno “scarto pericoloso”, un abominio, uno sbaglio di natura che – invece di aiutare tutti a porsi la domanda sul senso ultimo del vivere – ha alimentato dibattiti e ossessioni, paure e sentenze, finendo per disumanizzare Van Den Bleeken e renderlo un esempio, un simbolo. Proprio come fanno i terroristi quando uccidono un uomo. Non lo fanno per quello che è, ma per quello che rappresenta. Ci sono, quindi, delle certezze inoppugnabili che emergono da questa notizia, ma ci sono anche – ed è inutile evitarlo – delle domande che non hanno risposta, ma che meritano di essere formulate e consegnate a chi oggi legge e crede magari di avere le idee chiare su un caso che è tutt’altro che semplice o facilmente risolvibile. 

La prima domanda è tutta per coloro che oggi cantano vittoria e inneggiano alla “giustizia”: siete sicuri, cari signori, che questa morte sia giustizia? Che giustizia sia punire un uomo facendolo diventare vittima dei suoi stessi comportamenti criminosi? Siete sicuri che uccidere Caino faccia giustizia ad Abele? La giustizia, quanto siamo lontani da questo concetto oggi, non è ripagare l’uomo della stessa moneta, ma essere capaci di trattare un uomo in modo diverso da come egli stesso ha trattato i propri simili. Giustizia non è perpetrare il crimine trasformando l’oppressore in oppresso, giustizia è restituire dignità e rispetto a chi non ha saputo darne in modo da far maturare in lui la consapevolezza del bene e il bisogno di riscatto.

Quante teste sgozzate avremo ancora bisogno di vedere per sentirci ripagati del male ricevuto? Fino a quando nei nostri tribunali, pur con leggi e forme democratiche “superiori”, si continueranno ad emettere sentenze che assomigliano terribilmente a quelle pronunciate in direttissima dagli uomini del califfo? A questa domanda non c’è risposta, eppure va posta. 

In ultimo, un ‘osservazione che non credo essere banale: quell’uomo ha deciso di morire, si dice, e – in questa autodeterminazione – sta tutta la grandezza e la maturità dell’Occidente. Certo, essere padroni di se stessi è anche a volte sinonimo di libertà, ma davvero la nostra volontà può essere così sovrana da andare contro la realtà? Davvero ad un uomo può essere permesso per legge di andare contro la sua propria esistenza? Cosa vale di più oggi: quello che siamo o quello che vogliamo? Io non credo che questa sia una domanda per Van Den Bleeken, io credo che questa sia una domanda per ciascuno di noi. Da farci stamattina, magari in coda al semaforo, magari mentre pensiamo che chi sta nella macchina davanti a noi meriti “una bella lezione”. Alla fine le grandi decisioni nascono così: dall’intimo della nostra coscienza, dal modo con cui, fin dalle prime ore del giorno, guardiamo tutto. Anche Van Den Bleeken.