Pietro Di Paola amava Alessandra. Al punto da volerla uccidere per averla solo per sé. Al punto da vendicarsi del suo mancato amore nel modo più crudele e definitivo. Quel che la cronaca agghiacciante ci ha raccontato, è la storia di un omicidio-suicidio. Ma c’è qualcosa di più feroce e folle, che spiegare solo con la follia non basta. Perché è troppo facile, troppo sbrigativo, troppo generico. La follia è pericolosa e non, la follia è anche geniale, la follia può essere benigna o maligna, e chi è in grado di diagnosticarne l’essenza? Potremmo parlare di follia per ogni efferato crimine. Faremmo probabilmente torto ai veri insani di mente. Non basta neppure parlare di lucida follia, nel caso del giovane ventenne milanese: si tratta di un ossimoro per spiegare l’inspiegabile, la follia per definizione non può essere né lucida né ragionevole. Ma se ancora diranno che è pazzia quella che ha trascinato in un abbraccio mortale quei due ragazzi giù al settimo piano, devono spiegarci perché è avvenuta, e perché nessuno se n’è accorto prima, che quel disagio esistenziale poteva diventare fatale.
Pietro ci aveva già provato, a finire la sua vita, e sempre tentando di lanciarsi da un balcone, solo qualche mese fa. Scoperto, salvato, lasciato solo coi suoi problemi trascurati, perché il ragazzo penava, la separazione dei genitori, che l’avevano accolto e adottato già ragazzino, aveva lasciato il segno. Pietro aveva trovato in Alessandra, brava ragazza, con la vocazione generosa di star vicino a persone difficili (voleva fare la psichiatra, che inquietante segnale) un punto d’appoggio, tutto l’affetto che gli era mancato. Un affetto insano, malato, morboso. Lei doveva essere sua. Non poteva soffrire per lei senza condividere con lei tutto il suo dolore.
È terribile che Alessandra, nella sua ingenua purezza, abbia accettato di andarlo a trovare, di passare con lui quella maledetta sera, insieme ad altri amici, nella finzione di festeggiare un compleanno. Che abbia deciso di trattenersi ancora un po’, da sola, per ascoltare quel che di urgente aveva da dirle. Che è di dominio pubblico, nella lettera spaventosa che ha lasciato ai parenti, e al mondo.
Lucidissimo, apparentemente. Parlando al passato, dando per certa la determinazione a morire, portando nel baratro chi l’aveva tradito. Lei, da odiare, lei da torturare con la paura. “Le ho fatto provare il terrore di perdere tutto, amici, famiglia e futuro”. Per scomparire insieme, sul selciato di una strada milanese, quartiere bene, gente che non fa chiasso la sera, e dunque ha sentito le urla, il botto inusuale, sordo, sul selciato. Una morte che doveva sembrargli catartica, tale da cancellare la disperazione, l’odio. “Il mio sfogo è finito nel momento in cui ho saltato” …
L’odio è soltanto espressione della follia? La maledizione con cui lo sigla, e lo tramanda al suo pubblico, nasce da qualche scena deviante di thriller, da qualche saga fumettistica noir, o è nata nella sua mente, covata giorno dopo giorno, cosciente e gelida? “Dubitate di quelli che ridono sempre e a volte non possono semplicemente fare altrimenti e nel frattempo perderanno l’anima”. Sapevi Pietro, quel che hai scritto e pensato? Perché hai sempre sorriso, perché hai scelto la maschera farsesca che ti ha lentamente reso disumano, chi ti ha impedito di essere “altrimenti”? Quando parlavi di anima, Pietro, era un modo di dire? O temevi una dannazione, simile o peggiore di quella provata nella tua giovane vita. O L’hai cercata, consapevole dell’orrore di cui ti saresti macchiato. Chi non ti ha preso per mano, Pietro, chi non ti ha aiutato ad alzare lo sguardo, a addolcire il tuo cuore, a curarti. Chi volevi davvero, nel tuo disperato assurdo desiderio di amore. Se non è solo follia, Pietro, chi ti ha invece condotto per mano, condotto alla morte, e alla maledizione?