Che terribile congiunzione: il disperato bisogno di significato di un giovane operaio russo che si toglie la vita davanti a una web cam, e la totale incapacità di tutti gli internauti – ma forse proprio di tutti – di riconoscere quel bisogno, che in fondo è ciò che ci costituisce come uomini. Di riconoscerlo, dico, nel grido del povero Serghiej, ma anche in se stessi. La vita di un altro non vale niente perché non vale niente neppure la mia. Senza significato, saltimbanchi si diventa, sì, ma poi saltimbanchi si muore (Enzo Jannacci): sulle tavole di quel palcoscenico dell’apparenza che è l’esistenza nichilista, in Russia e ovunque.



Chissà quale straziante bisogno di essere voluto bene doveva sentire Serghiej. Dai genitori: ma con questi era in rotta. Dalla moglie: ma questa l’aveva lasciato. Dal figlio di 3 anni: no, non gli è bastato. A 26 anni si comincia la vita adulta: quando la vita deve cessare di essere gioco e diventa lavoro, ascesi. Ma occorre la certezza di essere voluti bene. Occorre almeno qualcuno che possa udire il nostro grido.



Io a quell’età ho iniziato a lavorare e mi sono sposato: ero certo d’essere voluto bene e chi mi ha dato l’opportunità di lavorare lo ha fatto per una fiducia esagerata in me; no, non esagerata: proporzionata al mio essere rapporto con il Destino. IL mio “padrone” mi guardava così. Negli anni ho compreso quale immenso dono gratuito questo sia stato.  

All’epoca ci furono in Italia, e non solo, miei coetanei che scelsero di togliersi la vita per gridare (ai compagni, alla società) il fallimento dell’ideale rivoluzionario in cui avevano riposto il loro desiderio di significato, e – implicitamente – la grandezza misteriosa di questo desiderio.



Mi è accaduto anche di conoscere ragazzi o giovani che, più d’una volta, hanno minacciato il suicidio: in realtà non intendevano affatto togliersi la vita, o almeno così ho sempre creduto e prego il Signore di non essermi sbagliato; gridavano a qualcuno – la mamma e il papà – il disperato bisogno di sentirsi voluti bene. Ma non come semplice sentimento: come stima piena d’affezione, come affermazione che qualcuno fa del valore di me, della mia persona. La loro disperazione, come pure quella dei compagni rivoluzionari, era gridata a una presenza reale: i genitori, i compagni, la società. 

Serghiej non ha avuto la chance di questa comunicazione. Quale abissale solitudine doveva essere la sua, al punto da gridare a una presenza virtuale, che è come dire una presenza nulla, equivalente a un’assenza. Gridare a un nessuno che sta al posto dell’infinito.

“Accanto all’uomo che soffre occorre la presenza di un altro uomo”. La frase è di Giovanni Paolo II, e la pronunciò all’epoca del terremoto in Irpinia che fece migliaia di morti. La presenza virtuale, cioè la presenza nulla, corrisponde alla perdita dell’umano. 

Se non incontro un significato, non c’è nessuno che me lo può dare: non i genitori, non la società, non la rivoluzione. Men che meno la comunità anonima chattante. Se lascio seppellire il desiderio di significato, resta solo il consumo: di beni (panem) e di diversivi (circenses).  Così fa venir la pelle d’oca, ma a pensarci bene non fa meraviglia, che un suicidio diventi uno show.

Saltimbanchi si muore… Fa venire ancor più la pelle d’oca, di fronte a questi fatti,  il pensiero che il Destino non ha lasciato solo l’uomo. E questa è la cosa, misteriosamente ma definitivamente, più reale che esista. La possibilità, cioè, che anche noi saltimbanchi ci si scopra uomini.