“Un odio così forte da essere felice di sacrificare la propria vita per far provare all’altro la vera tristezza”.
Questo è forse il passaggio più opprimente e soffocante della lettera di Pietro Di Paola, il ventenne che a Milano ha scaraventato giù dal tetto di un palazzo milanese la sua ex morosa Alessandra Pellizzi, lanciandosi nel vuoto assieme a lei.
Ne hanno parlato in molti, telegiornali, giornali, siti internet. Certo, è una notizia che lascia basiti, che lascia letteralmente senza fiato. Come si fa, in una maniera così lucida, a desiderare per sé e per l’altro, un altro che si afferma di amare o, meglio, di avere amato tanto, un destino così orribile, al punto di essere disposti a sacrificare anche la propria vita? Sconvolge la lucidità delle parole del giovane, così meticolosa nel pianificare un gesto così inumano. Sconvolge e interroga. I media in questo non fanno altro che ribattere domande legittime e misteriose.
Che disagio c’era dietro? Perché quel ragazzo era così solo da diventare disperato? Da dove viene quella bestialità e quell’odio? Quanto incide la follia su un gesto del genere? C’erano ragioni patologiche che hanno spinto il giovane a lanciarsi nel vuoto assieme alla ragazza cui aveva assegnato questo spietato rituale di morte?
Sono domande legittime. Tutte quante domande legittime e verissime. D’altronde, non si può rimanere insensibili di fronte ad una vicenda del genere, soprattutto quando avviene così vicina a noi. Un palazzo in una zona residenziale di Milano, un palazzo come tanti, che poteva essere quello di chiunque, anonimo ed universale. Già, la vicinanza. La logica descritta nella lettera, questo desiderio atavico di vendetta e di vedere la sofferenza dell’altro al punto di sacrificare la propria vita non è forse la stessa degli integralisti islamici che si fanno saltare in aria per seminare morte e distruzione? “Noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita” è uno dei motti degli affiliati alle cellule armate di Al Qaeda e suona terribilmente vicina alle parole del ventenne. Eppure questo fatto ci sembra inspiegabilmente più vicino.
Tanti hanno provato a dare spiegazioni o a riflettere sulla vicenda. “Follia” è la parola ricorrente, quasi a giustificare una qualsiasi assenza di umano sentire in quel ragazzo. Oppure “solitudine”, o ancora “bestialità” (parola usata anche dal sacerdote Don Mazzi). Tanti, ancora, hanno provato a ricostruire il gesto seguendo una chiave psicologica, andando a scavare nel passato di un ragazzo difficile, pieno di ferite. È tutto giustissimo, chiariamo. Eppure c’è qualcosa che non torna. C’è come il tentativo di esorcizzare il male, di ritenerlo altro da sé, di considerare Pietro Di Paola un ragazzo “diverso”, un’entità diversa da qualsiasi altro essere umano, come a volersi lavare la coscienza e ritenersi del tutto avulsi da quell’odio che gli intossicava le giornate e ha sciolto nel suo acido due vite.
Tuttavia, davanti a fatti del genere non si dovrebbe essere così netti nel nascondere le nostre mani o, peggio, nel puntare il dito (contro qualunque cosa: contro l’autore del gesto, contro la famiglia che l’ha abbandonato a se stesso, contro la società che non l’ha protetto, contro gli educatori, contro i preti e via dicendo).
Chiaro, io che sto qui scrivendo non ho mai ammazzato nessuno e probabilmente materialmente non riuscirei a farlo, né probabilmente sarei in grado di sacrificare la mia vita per toglierla a qualcun altro (anche se di questo non ne potrò mai essere definitivamente certo).
Però, io come tutti gli uomini, conosco bene il male e lo faccio ogni giorno. Quante volte ci è capitato di ferire qualcuno a cui vogliamo bene, anche soltanto per rivalerci di un qualsiasi gesto che ci era sembrato ingiusto (e che magari lo era veramente: questo conta ben poco)? Anzi, quanto più riponiamo aspettative o affetto incondizionato nell’altro, tanto più è facile uscirne feriti. E – come da istinto naturale – quando si è feriti, se l’istintività non viene frenata da qualcosa di esterno, si diventa molto più aggressivi.
A maggior ragione questa aggressività, questo germe di male insito nel profondo dell’animo umano, si acuisce vivendo in una società, come la nostra, in cui l’amore, l’affettività e tutti gli altri sentimenti umani sono identificati con il possesso della persona o della cosa desiderata da una parte e dell’affermazione esasperata di sé come misura di tutte le cose dall’altra. Quando l’oggetto del desiderio viene meno, la combinazione fra il male dell’uomo e le dottrine del Padrone del Mondo (citando il titolo di quello che Papa Francesco ha definito come uno dei suoi libri preferiti) può diventare esplosiva. E nessuno di noi, nessuno, a maggior ragione io che sto scrivendo, può considerarsi immune.
Davanti al terribile disegno di morte, così lucido e soppesato in ogni minimo dettaglio, che Pietro Di Paola aveva tracciato per sé e per la povera Alessandra, l’unica riflessione che non dovrebbe mai essere nascosta, per quanto scomoda è che nell’uomo esiste strutturalmente il male. Chi è credente può chiamarlo “peccato originale”, chi non lo è può chiamarla “condizione strutturale dell’uomo”. Il concetto non cambia: questo è un dato di fatto e chiunque provi a sottrarsi a questa legge prima o poi dovrà scontrarsi con la sua stessa natura, quale che si a lo sforzo volontaristico messo in campo.
Vengono in mente i versi di Claudio Chieffo e della sua canzone “La Nuova Auschwitz”. Di fronte ai crimini del nazismo, il cantautore forlivese constatava che, al netto delle petizioni di principio, “non è difficile essere come loro”, perché in fondo, anche “loro”, i nazisti, erano gente come noi, che amava i propri figli, che amava stare con gli amici e via dicendo. Non è difficile essere come loro, e in fondo non è difficile neppure essere come Pietro Di Paola, per quanto sia duro da ammettere.
Per questo è necessario stare di fronte a questo male che è insito in ciascuno di noi, sfidarlo continuamente senza mai negare per un solo istante la sua esistenza: è questa la sfida della contemporaneità. L’ammettere il limite dell’uomo e l’ammettere che, in fondo, la propria salvezza da quel male che “ci inabita” (tanto quanto, per Sant’Agostino, nel cuore dell’uomo inabita il desiderio del divino) non può venire soltanto da noi stessi e che, al contempo, noi stessi non siamo però soltanto quel male lì, non ne siamo totalmente definiti al punto di doverne soccombere.
Così, davanti alla morte di Pietro ed Alessandra io non riesco a fare altro che stare in silenzio e domandarmi sul “misterio etterno dell’esser nostro”. Altro non so fare.