Insomma, l’anno è davvero iniziato. Le sveglie hanno cambiato orario, le agende hanno ricominciato a riempirsi e sono tornati i mitici “week end”. Nella vita di tutti i giorni è ripresa la scuola, l’università, il lavoro, la palestra e le altre “mille cosette” che vanno a definire il calendario della settimana. Nel mondo c’è una Chiesa che sta per celebrare un Sinodo straordinario (e per molti decisivo) sulla famiglia, un governo alle prese con riforme e problemi veri e una situazione geopolitica mondiale di forte incertezza, al punto da portare il Papa a formulare l’eloquente espressione di “terza guerra mondiale, ma a pezzi”. 



È inutile girarci intorno: quando finisce l’estate, e spuntano settembre e ottobre, la realtà ricomincia a chiamarci, a trascinarci, alcune volte perfino a “risucchiarci” nel suo vortice ininterrotto di sfide e di ambivalenti provocazioni. Tutto questo a qualcuno mette adrenalina in corpo, a qualcun altro paralizza le idee e le azioni, a qualcun altro ancora suscita sconforto e tristezza e a qualcuno – infine – fa solo venire voglia di prendere il calendario per individuare il primo “ponte utile” di questa interminabile stagione. È normale e, in un certo senso, è inevitabile: tutto quello che abbiamo visto e trascorso durante l’estate rischia di essere solo una buona motivazione per affrontare i primi giorni e non l’indicazione di un metodo, di una strada, da intraprendere anche nel mezzo della tempesta. 



Per questo è importante chiederci come stiamo arrivando, come siamo arrivati, all’inizio di quest’anno, cercando di capire dove guardare, cosa evitare, come fare a vivere questo tempo che è iniziato e che sta scandendo questo momento della nostra esistenza. Sicuramente le cose da evitare sono facili da riconoscere: anzitutto – questo lo capiamo leggendo e documentandoci sul Sinodo dei Vescovi – dobbiamo evitare il rischio di vivere la realtà a partire da quello che ci viene raccontato e non a partire da quello che è. Abbiamo il dovere di togliere al sistema mediatico il potere di raccontarci la vita secondo un’ideologia e non secondo una verità. 



Il Sinodo sulla famiglia, ad esempio, è lontano anni luce – come temi e come preoccupazioni – da quello che stanno dicendo o raccontando i blog e i giornali. Così come lo è il Papa, il governo e la crisi sempre più profonda del medioriente. Dobbiamo smetterla di farci ingannare da chi alimenta divisioni, scontri e battaglie solo per un proprio personalissimo tornaconto e dobbiamo tornare ad “avere fame” di sapere come stanno le cose, di scoprire la verità. È evidente che questo implichi, automaticamente, il fatto di cominciare a fidarci di qualcuno.

Non possiamo sperare, infatti, di conoscere la realtà fuori da un rapporto. Abbiamo dunque bisogno di un’amicizia cui non “vendere il cervello”, ma con cui seriamente entrare nel merito delle questioni. Di che cosa parleremo il sabato sera con gli amici, o la domenica a pranzo con i parenti, dipende solo da noi, riguarda solo la nostra personalissima responsabilità. Cercheremo anche quest’anno di accettare supinamente i racconti degli altri – anche dei nostri guru – oppure proveremo a guardare la realtà insieme a loro? Ci arroccheremo ancora sui nostri pregiudizi “da anni ottanta” o proveremo a cogliere nelle parole, magari dure e pesanti dell’altro, una provocazione per la nostra libertà?

Tutto questo, lo capiamo bene, è “roba nostra”, del nostro desiderio di vivere non “a metà strada” o “in attesa delle parole del capo”, ma con quella serietà che il nostro cuore ci chiede e che – man mano che passa il tempo – non possiamo più rimandare. Questo atteggiamento di “realismo” è così decisivo che invade a pieno titolo anche la nostra sfera personale: troppe volte, anche sugli amici o sui parenti, viviamo per sentito dire, per le “chiacchiere” degli altri. I nostri rapporti diventano così dei veri e propri circoli di scambio e la comunità cristiana il luogo principale del pettegolezzo e del giudizio morale sulla vita o sulle “presunte parole” dell’altro. 

È evidente che se vogliamo che quest’anno sia diverso abbiamo il preciso dovere, come fosse un fioretto quaresimale annuale, di stare un po’ più zitti, di non correre più dietro all’uno o all’altro vociferare, di non trasformare le nostre relazioni in ragnatele in cui impigliare chiunque, dall’amico di una vita a quello appena arrivato. Il Papa chiede alla Chiesa e al mondo di smetterla di essere un “sistema di potere e di controllo”, per cominciare a diventare una comunità, un luogo di servizio e di accompagnamento reale al cammino di ciascuno. Perché questo sia possibile c’è una terza cosa assolutamente da evitare: smetterla di continuare a frequentare e parlare solo con “i nostri simili”. 

Ci sono salotti che chiudono la vita, giardini che isolano dal mondo, taverne che diventano tane dove riconfermarsi l’uno con l’altro nell’unico terribile peccato che attanaglia il nostro tempo: quello dell’autoreferenzialità e dell’autonomia. Abbiamo bisogno di aria, abbiamo bisogno di libertà, abbiamo bisogno di irridere i piccoli poteri costituiti e i feudi che si reggono su un potere vecchio e privo di vita: abbiamo, insomma, bisogno di respirare. Che aria respiriamo nei nostri uffici, nelle nostre cenette di lavoro o tra amici, nel nostro portare insieme i bambini al parco?

Sperimentiamo davvero qualcosa che ci apre al mondo e alla vita oppure ritroviamo sempre perennemente noi stessi e le nostre istanze di fondo? Se un’amicizia – una compagnia – evita queste domande, in breve tempo diventerà gruppo, poi si trasformerà in cinico branco animato da interessi comuni e, infine, si mostrerà per quello che è: un luogo di tristezza e non di appassionata ricerca di vita. 

La svolta che questo anno ci chiede è radicale: o l’umanità, cioè noi, ricomincia a sentire e a vedere il bisogno che abbiamo e quello che hanno coloro che ci stanno vicino, oppure la nostra esistenza sarà condannata a diventare partigiana di se stessa, costruttrice di ideologia, distante anni luce dalla freschezza del primo giorno in cui ci siamo conosciuti e abbiamo cominciato o ad amarci o a camminare insieme. 

Io queste cose le dico perché le ho vissute, perché incastrandomi in queste posizioni ho perso amici e fratelli, occasioni e sogni. E non voglio che questo accada più né a me né a nessun altro. Mi viene in mente di una volta in cui ero ospite in un piccolo paesino e un signore tirò fuori un giornale locale dove si parlava della comunità cristiana di quel luogo. Tenendo in mano l’articolo mi continuava a dire: “Vede, don Federico, noi qui siamo una presenza!”. Io mi ricordo di averlo guardato e ascoltato a lungo e poi, alla fine, di avergli detto: “Amico mio, mi dispiace dirtelo ma voi qui siete semplicemente sul giornale”. Essere una Presenza, infatti, non significa che qualcun altro ti nota o parla di te, ma che tu stai seguendo una Presenza, qualcuno che c’è e che non vuoi più perderti. 

È questo l’augurio migliore che ho da fare all’inizio dell’autunno, è questo quello che desidero per me: che sia un Alto a dominare e a indicare – passo dopo passo – la rotta di questo mio nuovo anno che comincia. Un anno che non ha bisogno di eroi o di autorevoli interpreti, ma solo di mendicanti commossi e lieti alla sequela dell’unico vero protagonista, Gesù Cristo.