La morte di Olga Raschietti, Lucia Pulici e Bernadette Boggian, tutte suore missionarie in Burundi, apre un nuovo squarcio sulla persecuzione dei cristiani d’oriente, una persecuzione che – per le sue proporzioni – assume ora dopo ora i connotati di un evento globale che riguarda l’Occidente come l’Oriente. Non ci stancheremo mai di ripetere, infatti, che anche l’Occidente – pur senza armi e senza aperta violenza – sta mettendo nuovamente (come mai era accaduto dall’Impero di Diocleziano in poi) i credenti in Cristo sotto attacco, contribuendo a fare di questa fine 2014 una data cruciale del rapporto tra mondo e cristianesimo.
Per molti aspetti si tratta di eventi che il popolo di Dio ha già vissuto e che, improvvisamente, riemergono dalle polverose pagine dei libri di storia. Penso soprattutto al tema dei lapsi, di coloro che con la forza abiurano la fede cristiana e – passato il pericolo – chiedono di essere riammessi alla Chiesa, e al tema delle donne violentate che, psicologicamente, cominciano a preferire la loro stessa morte piuttosto che una libertà ferita dalla memoria delle atrocità subite. Pare, fino ad ora, che la maggioranza delle donne violentate appartengano al gruppo yazida, ma il fenomeno si allarga di ora in ora e le cristiane costrette a convertirsi per non essere abusate sono in progressivo e costante aumento.
E comunque, anche se fossero soltanto yazide, la questione non cambierebbe. Davanti a tutto questo, infatti, non ci servono né teologi che ci ricordino che un uomo che è costretto ad abiurare con la forza può essere perdonato, né maestri che ci indichino nel martirio la suprema forma di amore a Cristo. Tutto questo lo sappiamo, tutto questo ci è intimamente chiaro: quello di cui abbiamo maledettamente bisogno, in questi giorni di fine estate, è di umanità. Ci sono due tipi di umanità di cui io, personalmente, sento la mancanza in un momento del genere: mi mancano gli uomini sinceri, uomini che capiscano una volta per tutte che il corpo non è un gioco a disposizione delle voluttà della nostra specie, ma l’elemento più determinante della nostra stessa identità. Parlare di anima e di corpo nel modo con cui siamo abituati, conversare di spirito e di carne come i nostri intellettuali sono avvezzi a fare, pensare che quello che accade al nostro corpo sia irrilevante per il nostro stesso Io, è semplicemente stupido e fuorviante: l’uomo è uno, e come quelle donne violentate si sentono violate nel loro stesso essere, così anche noi – ogni volta che ci avviciniamo e ci tocchiamo – stiamo entrando in contatto con l’essere intimo e definitivo dell’altro. La carne non è un accessorio dell’anima, ma è il confine tra la nostra coscienza, il nostro mondo interiore, e quello che sta fuori di noi.
Per questo sento la mancanza di uomini sinceri, di uomini che stasera – baciando la loro donna – capiscano che non stanno giocando, che non è un sollazzo amarsi e fare una famiglia, che trattarsi male, a qualunque livello e in qualunque modo, significa diventare come quei delinquenti iracheni che pensano alle donne come “materiale” a loro disposizione. Io non voglio più sentir parlare di donne violentate, ma non voglio neanche più vedere piangere una ragazzina costretta a “giocare” dai suoi amici borghesi occidentali: il nemico è in casa e quegli uomini sono figli di una concezione dell’uomo che – diciamolo una volta per tutte – passa anche attraverso le nostre scuole e le nostre famiglie.
Per questo motivo sento il bisogno anche di uomini consapevoli, uomini che non gridino allo scandalo quando vedono il male perché sentono che quel male è alla portata di tutti, che quella barbarie è tale solo perché qualcuno ci ha educato a chiamarla così. Perché, sia chiaro anche questo, se in Europa non ci fosse stato il cristianesimo, anche noi saremmo esattamente così. E lo siamo ancora. Benché sia venuto Cristo, benché ci abbia salvato, benché ci abbia preso con sé. Basti pensare a Guantanamo, a Mogadiscio, a certe discoteche della borghesia bene attorno a Milano, Londra o New York e potremmo in poco tempo renderci conto che i mostri sono dentro di noi.
Molti pensano che sia l’islam ad avere un problema. Certo, papa Benedetto ci ha spiegato che quando la fede perde il contatto con la ragione essa può diventare una pura forma di violenza perché, riducendo Dio a volontà assoluta e imperscrutabile, rende la realtà un puro arbitrio che Egli può mettere in discussione come e quando vuole. Ma questa è solo una parte della questione. Infatti il male è dentro di noi e può proliferare in qualunque cultura: i cristianissimi nazisti non sono molto diversi dagli islamissimi jihadisti e dunque è certamente un bene parlare delle difficoltà dell’islam a maturare, è bene discutere delle sue intrinseche contraddizioni di fondo ed è pure bene affermare – come ha fatto qualche giorno fa Galli della Loggia – che tutte le nostre regole e i nostri valori non sono universali, ma sono l’esito (anch’essi) di un percorso culturale ben preciso della cristianità; eppure tali argomentazioni sono insufficienti di fronte all’evidenza che il male è nell’uomo, c’è, ed è possibile in ogni tempo e in ogni cultura.
Per questo l’unica categoria di uomini di cui non sento la mancanza oggi sono i profeti: perché mentre ne vedo sempre meno tra i commentatori e i politici del Vecchio Occidente non posso fingere che a Roma non ve ne sia uno che Dio ha voluto, direi non a caso, che in questi anni fosse “l’uomo vestito di bianco”.
Un uomo che sa che l’unica cosa ragionevole di fronte all’orrore di questi mesi è la preghiera perché, una volta che hai fermato l’aggressore con una forza “indicibilmente superiore” a quella con cui ti ha attaccato, non gli hai ancora cambiato il cuore. E questa è una cosa che solo Cristo può fare. Non mi stupisco, quindi, che il Papa oggi ci dica che dal sangue delle tre suore uccise possa nascere la fratellanza: perché solo dalla consapevolezza del male che abita in ognuno di noi può sorgere l’unico fatto che davvero può ribaltare tutto, il perdono.
Abbiamo bisogno di uomini sinceri, consapevoli, profetici, uomini che sappiano prendere decisioni sagge e meditate, uomini che abbiano la grazia di guardare – ancora una volta – al Golgota. Su quella croce duemila anni fa, infatti, il Cristo non ha messo sotto accusa l’ebraismo dei Giudei né il paganesimo dei Romani: ha visto che ciò che era malato era il loro cuore e ha dato se stesso per cambiarlo. Ogni giorno muoiono migliaia di persone, altre migliaia perdono la loro dignità nella violenza e nella barbarie. Io non ho parole per loro: ho solo lacrime e chiedo alla politica di fare presto, di fermare tutto questo. Ma, in realtà, sono consapevole che nemmeno la politica basta perchè la malattia più grande è dentro di me, dentro quella sottilissima possibilità che io non sia solo uno spettatore inerme, bensì – seppur dentro l’apparente ambito innocuo della mia vita – un altro spietato aguzzino.