“La riconciliazione tra chi ha commesso un crimine e la società è il terreno su cui occorre costruire, mettendo da parte obiezioni che nascono da una gestione meramente burocratica delle carceri. Perciò prima delle risorse bisogna decidere sui fondamentali. Possiamo provare a cambiare il senso della pena o dobbiamo restare inginocchiati davanti al totem del carcere di due secoli fa?”. Lo afferma Luciano Violante, ex presidente della Camera dei deputati ed ex presidente della Commissione Nazionale Antimafia, a proposito del recente caso relativo al lavoro nelle carceri. Un progetto realizzato da cooperative sociali ha dato lavoro per dieci anni ai detenuti in dieci carceri italiane. Un’opportunità importante per rieducare e riscattare chi in passato si era macchiato di crimini. L’affidamento del servizio è scaduto a fine 2014, e per ora la pubblica amministrazione ha deciso di prorogarlo solo fino al 15 gennaio 2015, poi non si sa.
Che cosa ne pensa della scelta di non confermare il progetto per il lavoro nelle carceri?
Alcune di queste cooperative preparano pasti, servizi di cucina e catering molto apprezzati. Questo vuol dire che la qualità del cibo offerto ai detenuti in questi dieci carceri è molto migliore rispetto a molti altri penitenziari, dove tra l’altro si buttano rilevanti quantità di cibo, di qualità scadente e certamente non salutare.
Qual è la vera posta in gioco di questa vicenda?
Quello che dobbiamo chiederci è che cosa vuole dire fare lavorare i carcerati. Significa fare lo scopino, il portalettere, pulire i corridoi? Oppure significa dare un orizzonte strategico allo Stato, smettere di fare del carcere una scuola di perfezionamento nella criminalità, dare una prospettiva di vita ai detenuti, insegnando loro un lavoro, in modo che quando escono dal carcere abbiano prospettive di occupazione reale? un detenuto deve restare a galleggiare nella melma del carcere e del crimine con Stato e società che diventano oggettivamente complici, oppure Stato e società possono, progressivamente, con i tempi consentiti dalle procedure e dalle ristrettezze economiche, dargli gli strumenti per reinserirsi e ricostruire la sua riconciliazione con la società. Già oggi molte cose sono cambiate e in meglio in gran parte delle carceri ma abbiamo migliorato il vecchio non abbiam dato vita al nuovo, tranne appunto esperienze come quella delle cooperative.
Che cosa ne pensa del metodo adottato dalle cooperative che offrono lavoro ai carcerati?
I dati sulla recidiva ci dicono che la strada giusta è questa. Mentre la recidiva di quanti non lavorano è altissima, quella di quanti lavorano è bassissima. Quindi questo non è buonismo imbelle; c’è un vantaggio reale nel medio periodo anche per lo Stato e la società. Ma come procedere? Se ci mettiamo a litigare sui costi o sui benefici economici dell’una o dell’altra soluzione, si finirà con la sconfitta di tutti. Bisogna tornare ai fondamentali su tipo di carcere da realizzare, altrimenti avremo solo uno stupido “ping pong” di parole vuote e di numeri equivoci. Se poi di queste cooperative ce ne fosse una che si è comportata male va subito esclusa, ma non è giusto che a pagare siano anche le altre.
Insomma le cooperative sociali hanno permesso allo Stato di risparmiare?
Insisto. La vera questione però non è quella dei costi, bensì di che cosa vogliamo fare. Vogliamo fare del detenuto un soggetto che entra ed esce continuamente dal carcere perché non riesce a reinserirsi, in quanto lo Stato non gli ha dato la possibilità di riconciliarsi nella società? Se chi sei anni fa ha commesso una rapina ora diventa un bravo cuoco, o piuttosto un pasticcere o giardiniere, ha la possibilità di cambiare vita. Se un ex detenuto constata che lavorando onestamente guadagna dignità e rispetto, inevitabilmente si riconcilia con la società. La riconciliazione è il terreno su cui costruire.
Da dove nascono le resistenze al cambiamento?
A volte è presente una forte logica burocratica, per cui se si cambiano determinate prassi si va incontro all’ignoto. Capisco che il burocrate sia poco interessato al meccanismo della riconciliazione di cui le ho parlato, e preferisca invece lasciare le cose come stanno. Tanto più che i direttori dei penitenziari, gli educatori e tutti coloro che vivono la vita del carcere in un’ottica di riconciliazione apprezzano il lavoro svolto dalle cooperative.
Perché allora l’amministrazione non ha ancora rinnovato il progetto per il lavoro nel carcere?
Non conosco le vicende interne, e non posso esprimere un giudizio su cose che non conosco. Quello che mi sento di dire però è che prima bisogna discutere del merito e dei fondamentali, e poi vedere tutto il resto. Se si considera come positiva questa esperienza, non bisognerà discutere se chiuderla o non chiuderla, ma di come farla vivere nelle condizioni date. Tutti sanno che non ci sono molte risorse, ma non vorrei che arrivasse poi una sanzione europea che ci farà pagare molto di più di quello che pensavamo di aver risparmiato.
(Pietro Vernizzi)