Via le cooperative sociali dalle carceri. Il governo tira dritto, e a quanto pare non è intenzionato a rinnovare l’affidamento del servizio per la fornitura di pasti ai detenuti. Con il provvedimento andrà perduta l’opportunità, per i detenuti che aderiscono al progetto, non solo di lavorare in carcere, ma anche di imparare un lavoro, in modo da essere pronti al “dopo”, a quando saranno in libertà. Un duro colpo alla loro dignità, a quella riscoperta di sé come uomini che viene dal lavoro. L’ultima novità, in ordine di tempo, è la mancata concessione della proroga di 16 giorni alla gestione delle cucine (dal 16 al 31 gennaio 2015), annunciata il 30 dicembre nell’incontro con il ministro Andrea Orlando, il capo di gabinetto Giovanni Melillo e il capo del Dap Santi Consolo. I 15 giorni dovevano servire a incontrare le cooperative e trovare delle soluzioni per evitare l’interruzione dei progetti di gestione delle cucine in dieci carceri, che hanno dato risultati estremamente positivi. Ne abbiamo parlato con Luigi Manconi, sociologo e scrittore, già sottosegretario alla Giustizia.



Che ne pensa, Manconi?

Quanto va succedendo intorno a questa vicenda appare difficilmente comprensibile. In ogni caso, non sono state fornite finora dall’autorità competente adeguate motivazioni. Mi spiego. Lasciando da parte per un attimo gli argomenti delle cooperative sociali, mi risulta che direttori, provveditori, personale dell’amministrazione, agenti di polizia penitenziaria, educatori, cappellani, volontari, magistrati di sorveglianza siano concordi in grandissima maggioranza, e forse all’unanimità, nel valutare positivamente questa modalità di attività lavorativa in carcere. Dunque, ciò che non è stato esplicitato e che, comunque, io non riesco a comprendere, è quali e dove siano i fatti e gli aspetti negativi.



Dal punto di vista economico questa scelta dell’amministrazione penitenziaria porta o no un risparmio per le casse dello Stato e quindi per i cittadini?

Dal punto di vista economico, non sembra esservi alcun dubbio sul fatto che con l’attività delle cooperative sociali non solo si risparmia, ma — fatto ancora più importante — si ottengono risultati altrimenti irraggiungibili. Pertanto, se pure con il ritorno alla vecchia gestione si avesse un qualche risparmio, risulterebbero annullati l’utilità sociale e benefici derivanti dall’attività delle cooperative. Se poi aggiungiamo le multe che l’amministrazione deve pagare per i ricorsi (e sono molti di più quelli per il lavoro rispetto a quelli per il sovraffollamento), faccio fatica a capire dove stia l’interesse pubblico. Da ultimo, la risocializzazione, il rispetto dei diritti, la dignità della persona, anche se privata della libertà, non possono essere ignorati o messi in secondo piano. È un problema della società e del suo livello di civiltà giuridica. Se, quindi, questi interrogativi che, come ho detto, non sono solo miei, non trovano risposte convincenti, rischia di venire confermata l’ipotesi peggiore. 



Quale, professore? 

Esito a dirlo, tanto la prospettiva mi sembra cupa e regressiva, ma sembra affiorare l’idea di trasformare il lavoro penitenziario in una forma velata, in ogni caso fortemente ambigua, di lavoro forzato, quello che papa Francesco chiama “le nuove forme di schiavitù”: lo sfruttamento delle fasce più vulnerabili che, tanto più se hanno commesso errori, è bene che paghino e tacciano. Capisco che possa apparire un’ipotesi inaudita per le nostre orecchie e per la nostra sensibilità, ma in Italia e anche a livelli istituzionali elevati, ci sono orecchie e sensibilità che trovano del tutto plausibile una simile opzione. Che, non a caso, ha già i suoi mezzi di propaganda e i suoi testimonial eccellenti. E non mi riferisco certo al ministro Orlando e al suo capo di Gabinetto Melillo, che hanno tutt’altra posizione. Sono sicuro che, nella sua forma più brutale (lavoro gratuito coatto), quell’ipotesi, difficilmente potrà essere accolta, ma temo che in altre variabili rischi di essere apprezzata dal giustizialismo dilagante. 

 

Dal 16 di gennaio circa 170 detenuti e circa 40 operatori (maestri cuochi, psicologi, educatori, personale civile in genere) perderanno il posto di lavoro. Gli operatori esterni diventeranno disoccupati. Per i detenuti il ministero ha garantito che tutti quelli che lavoravano con le cooperative saranno riassunti dall’amministrazione penitenziaria con la modalità delle mercedi (i due terzi del contratto di lavoro dell’anno in corso, peccato che l’anno in corso per i detenuti è il 1993, cioè quando ancora c’erano le lire, da allora il contratto non è mai stato aggiornato). Questo comporterà uno stipendio almeno dimezzato da una parte e l’assenza totale di formazione, accompagnamento, qualità e il rispetto di tutte quelle norme specifiche della preparazione dei pasti. In altre parole, abbandonati a se stessi, non impareranno più un mestiere da spendere poi all’esterno.

Questo è un grande problema ed è il motivo per cui nel 2003 era partito il progetto di trasformazione dei lavori domestici a mercedi in servizi veri, secondo le regole del mercato. A mio avviso, se la verifica del progetto, partito ormai 11 anni fa, risulta essere complessivamente positiva, esso va salvaguardato ed esteso a tutte le carceri.

 

Se dal 16 gennaio i detenuti, vedendosi più che dimezzata la busta paga, decidessero qualche forma di protesta “legittima” come ad esempio alcune giornate di sciopero o il rifiuto del vitto, o lo sciopero della fame, a che cosa potrebbero andare incontro? Hanno questi diritti o possono avere delle ritorsioni magari in nome della sicurezza?

Hanno quel diritto, eccome. Va ricordato, infatti, che la reclusione comporta la privazione della libertà, ma non certo l’annullamento degli altri diritti, garanzie, facoltà, che sono propri di ciascun individuo e inalienabili. Senza dubbio il carcere comporta la compressione di alcuni diritti e la loro più faticosa applicazione, determina limitazione e sospensione nell’esercizio di alcune libertà, ma tutto questo va puntualmente motivato e può essere sottoposto ad appello e ricorso. Nessun’altra privazione di diritto è consentita. D’altra parte, l’opportunità di svolgere un’attività lavorativa risponde a quella finalità rieducativa della pena così tassativamente prevista dalla carta costituzionale. E la possibilità di ricorrere a forme di protesta qualora ci si ritenga vittime di comportamenti ingiusti corrisponde a un fondamentale atto di libertà. Se, pertanto, in presenza di forme pacifiche di protesta, vi fossero ritorsioni, esse sarebbero, appunto, ritorsioni: esercizio illegale di potere.

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