Il recente intervento del governo, destinato a togliere i sostegni economici a una decina di cooperative italiane che si occupano della gestione in eccellenza delle mense e di servizi di catering nelle carceri (e che si estenderà a tante altre realtà del mondo della cooperazione a causa del taglio del 34 per cento dei finanziamenti erogati dalla legge Smuraglia), rappresenta, a mio parere, un incidente di percorso all’interno del nostro sistema penitenziario e dei principi che lo caratterizzano.



Non voglio entrare, non avendone la competenza, nelle questioni economiche o di bilancio che possono aver portato a tale decisione, ma mi pare che il percorso avrebbe dovuto essere un altro, non inficiando quella che si era dimostrata una valida ed efficace opportunità rieducativa, anche perché quel che si ritiene di risparmiare lo si perde poi in costi sociali.



Da magistrato non posso non rilevare come l’art. 17 della legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario preveda che “la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa”. Nello specifico, il successivo art. 20 stabilisce che “negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. A tal fine possono essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da imprese pubbliche o private…”.



Si tratta di previsioni che, assieme ad altre contemplate nella legge 354/75 e nel relativo regolamento di esecuzione, danno concreta attuazione a quella sussidiarietà verticale di fatto necessaria per dare un senso operativo al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena (art. 27, 3° comma, Costituzione).

E il lavoro, per come detto, assieme all’istruzione (professionale e non), costituisce la principale risorsa per la risocializzazione di un condannato. Parlo del lavoro vero, con regolare contratto di assunzione e  relativa contribuzione fiscale. Non quello meramente penitenziario remunerato con una mercede simbolica che non qualifica il detenuto e non gli conferisce competenze specifiche ed  esperienze professionali proseguibili all’esterno una volta cessata la carcerazione. 

Ma il lavoro come sopra inteso non è importante solo per la qualificazione professionale di un detenuto. Ci sono altre connotazioni rilevanti. Che una cooperativa di lavoro sia presente all’interno di un carcere significa che una realtà sociale, un pezzo della società civile, entri dentro le mura della prigione e possa esser “vista”, innanzitutto, da chi sta espiando la pena, dentro una “vicinanza”. Un contesto di persone positive, produttive, valorizzative, che costituisce, prima ancora che un’opportunità di lavoro, un modello di riferimento “altro” rispetto a quello precedentemente frequentato, abitato, dall’autore del reato.

E da qui può scaturire allora un paragone di convenienza umana. Il detenuto non cambia per sterili lezioncine sul “valore della legalità”. Deve scoprire una convenienza umana ultima per cambiare. Deve avere, cioè, l’opportunità di essere guardato e valorizzato per ciò che è veramente e non già solo definito dal reato commesso. 

Chi dà ai detenuti un lavoro vero, dà, innanzitutto e prima, se stesso; si consegna ad un rapporto. Perché per lavorare bene, per darti delle competenze, devo prima credere in te, devo prima entrare in rapporto con te, e, nel corso del lavoro svolto assieme, sostenerti, aiutarti, rimproverarti, correggerti, ma dentro una logica che non è più quella inerente allo “scotto da pagare”, al sinallagma espiativo, ma  quella di un percorso educativo autenticamente umano, valido per tutti, per i detenuti come per noi. E spesso chi ha commesso reati non ha potuto vivere, guardare prima, nel suo ambito esistenziale, queste dinamiche della responsabilità interpersonale.

Ma c’è un altro importante rilievo: il lavoro vero, attribuendo competenze, qualifiche, spendibili sul mercato esterno, conferisce vera dignità a chi sbagliato. Non solo perché si impara un mestiere utile. Ma anche perché il detenuto, in questo modo, può mantenere se stesso e la propria famiglia, pagare le tasse.

Ancora: può sostenere le spese del proprio mantenimento in carcere. Nel mio lavoro ad esempio sono chiamato a pronunciarmi spesso sulla remissione del debito richiesta dal soggetto recluso privo di risorse economiche per gli esborsi sostenuti dall’amministrazione penitenziaria a titolo di costo della sua detenzione. Con la conseguenza, inevitabile, che tali spese si risolvono poi in un onere ulteriore in capo alla società.

Ed infine, ma non da ultimo, è ormai risaputo (vi sono al riguardo statistiche ormai consolidate) che il lavoro qualificato in carcere contribuisce ad abbassare notevolmente il tasso di recidiva. E’ il giudizio di convenienza umana di cui ho parlato prima – favorito da ciò che rappresenta, nel suo complesso, il lavoro vero – che costituisce l’indicatore dell’avvenuto cambiamento del soggetto.

Non solo; sottolinerei un altro effetto virtuoso derivante dall’abbattimento della recidiva: l’effetto “domino” di tale cambiamento. Un uomo che ha recuperato la sua dignità, che può spendersi in modo nuovo nella società, con delle competenze, con un lavoro onesto e competitivo sul mercato, è a sua volta esempio per altri: per i figli, i parenti, gli amici, in un contesto sociale magari già a suo tempo caratterizzato da devianza. Abbattimento della recidiva, quindi, ma anche funzione di prevenzione generale, non determinata più dal timore della deterrenza, ma dall’influsso osmotico di un modello concreto di recupero sociale autentico e conveniente per tutti.   

Non abbandonerei questa strada.