La notizia l’ha data ieri il Corriere, dopo che giorni fa ne aveva parlato una tv negli Stati Uniti. Martin Pistorius era un ragazzino sudafricano, vivace, intelligente, appassionato di elettronica; ma a dodici anni una strana malattia — forse una meningite, ma i medici erano disorientati — gli ha poco a poco sottratto il controllo del suo corpo: nel giro di qualche mese era incapace di qualsiasi movimento, finché i medici lo hanno riconsegnato ai genitori, dicendo più o meno «prendetevene cura finché muore». 



Ma Martin non è morto. I genitori hanno continuato a prendersene cura, portandolo quotidianamente a fare fisioterapia in un centro specializzato. E non era nemmeno incosciente: a un certo punto — dopo forse due o tre anni — ha ricominciato a rendersi conto di tutto quel che gli accadeva intorno. Solo che nessuno lo sapeva. Dev’essere stato terribile vedere tutto il mondo intorno, sentire e capire tutto, e non poter muovere un muscolo – né la lingua, né le palpebre, niente – per far capire che c’era. Dev’essere stato terribile sentire la madre dire un giorno: «Spero che tu muoia». Ma Martin non ha ceduto alla disperazione. Ha lottato contro i pensieri negativi e ha fatto di tutto per alimentare quelli positivi. Ha lottato contro il suo corpo che non voleva saperne di rispondere, e a un certo punto ha vinto: verso i ventiquattro anni ha cominciato a muovere le palpebre, qualcuno se ne è accorto, e il filo spezzato si è riannodato. Oggi Martin ha 39 anni, comunica grazie a un computer, e ha una moglie. Che dice: “Ok, è su una sedia a rotelle e può parlare solo attraverso un programma al computer. Ma io questo ragazzo semplicemente lo amo”.



Quando ho letto della “resurrezione” di Martin Pistorius stavo lavorando ad alcuni testi per i miei studenti. Testi relativi alla capacità della conoscenza umana, raccolti intorno alla celebre battuta di Amleto: “Esistono più cose in cielo e sulla terra di quante ne comprenda la tua filosofia, mio buon Orazio”. Uno dei testi è una quasi altrettanto celebre espressione di san Tommaso, mi piace citarla in latino, poi traduco: Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur. “Tutto ciò che viene ricevuto, viene ricevuto secondo le caratteristiche del recipiente”: come l’acqua, che è sempre la stessa ma prende la forma del vaso in cui si versa. Tommaso però sta parlando della conoscenza, e il recipiente è l’intelletto umano. E dato che l’intelletto umano, scrive, “è limitato e cambia nel tempo”, così inevitabilmente è limitata e cambia nel tempo anche la conoscenza che ha delle cose: non può mai pretendere di essere totale, definitiva, compiuta.



E mentre lavoravo su questi testi mi ronzava nella mente l’articolo di Umberto Eco sul Corriere che chiede di mettere al bando le religioni. Ma le religioni— riflettevo aiutato da un testo di don Luigi Giussani — finiranno solo quando finiranno gli uomini, perché gli uomini non possono fare a meno, per natura, di avere una religione. 

Saranno le donne, i soldi, la carriera (“l’usura, la lussuria, il potere” di Eliot); saranno la famiglia, il calcio, un hobby, il comodo, sarà magari il dogma contemporaneo che a nessuna di queste cose bisogna legarsi, che bisogna essere pronti a cambiare dio ogni cinque minuti: ma inevitabilmente un uomo adora un dio, riconosce uno scopo, un criterio, un valore ultimo in funzione del quale vivere. E ripensavo a una bellissima discussione con una mia alunna musulmana in cui è venuto fuori che il problema non sono le religioni, ma — chiamiamoli così — i fondamentalisti. Ogni religione ha i suoi. Non solo i terroristi islamici e i creazionisti cristiani (intendo quelli che leggono la Bibbia alla lettera e negano l’evoluzione delle specie): gli ultras sono i fondamentalisti del calcio, certi politici e certi finanzieri quelli dei soldi e della politica… E anche il relativismo è una religione, e ha i suoi fondamentalisti, che in nome della tolleranza vorrebbero far fuori tutte le altre religioni eccetto la loro.

Il problema invece non sono le religioni, ma la mancanza — spiega sempre don Giussani in questo testo — del senso del Mistero. Al contrario, “al termine del cammino, quando tutto dovrebbe essere chiaro e compreso, proprio allora saremo costretti a riconoscere che tutto è Mistero”. Più ci introduciamo nella comprensione del Mistero di Dio e della realtà — mi permetto di parafrasare, io la capisco così — più ci accorgiamo che quello che capiamo è sempre inevitabilmente una rappresentazione ridotta, inadeguata del mistero inesauribile dell’essere. E ci sono uomini e donne, persone così in tutte le religioni, anche in quella laica, e con questi è sempre possibile incontrarsi, dialogare, vivere in pace.

Che cosa c’entra tutto questo con Pistorius? C’entra perché la sua storia è un fatto, un fatto semplice e incontrovertibile, piantato lì a ricordarci che esistono più cose in cielo e sulla terra di quante ne comprenda la nostra filosofia, e che l’unica posizione davvero ragionevole, davvero dignitosa, davvero umana di fronte alla realtà è adorarla, ascoltarla, indagarla, senza mai la pretesa di aver forgiato la chiave che permetta di strapparle il suo ultimo segreto. Ecco, a me la vicenda di Pistorius ha detto questo.