Lo confesso ho pianto. Ma tanto. E intorno a me avevo colleghi, organizzatori, volontari e persino personale del catering delle sala stampa in lacrime. La giornata della compassione l’abbiamo vissuta tutti intensamente, insieme a Francesco, sotto l’acqua, zuppi fino alle mutande, ma consapevoli di assistere a qualcosa di straordinariamente intenso. Una giornata epica: l’avventuroso viaggio di Papa Francesco verso Taclòban e la tormenta tropicale che di lì a poco avrebbe investito l’isola nel sud delle Filipppine, Leyte, era iniziato con tre quarti d’ora di anticipo sul programma. Il pilota del volo che lo portava nella regione devastata dal tifone Yolanda nel novembre del 2013, aveva fretta di decollare dopo l’allerta meteo. Volo con parecchie turbolenze e atterraggio sotto una pioggia sottile e trasversale. Il Papa aveva potuto guardare già dal finestrino dell’aereo la folla immensa, stretta tra l’oceano e la base aerea. Un’immensa distesa di anime che lo attendeva da ore, imbustata in impermeabili gialli. Francesco sulla papamobile aveva indossato anche lui il velo di plastica che avrebbe dovuto ripararlo dall’acqua. Più tardi mons. Raimond Savio, vescovo nelle isole Marshall, mi spiegherà in quel momento, Bergoglio, si è “messo le Filippine in tasca”. E’ stato il primo di una serie di gesti che lo ha portato a sperimentare, in una mattinata a tratti drammatica, i disagi e le difficoltà del vivere sotto la minaccia costante del cielo.



Prima la celebrazione intensa, inedità, commovente con le parole quasi sillabate in spagnolo e tradotte in inglese, durante la bellissima omelia pronunciata guardando uomini e donne abituati a farsi schiaffeggiare dalle tempeste. Il braccio lanciato ad indicare il crocifisso, il grido verso Cristo che non delude, il silenzio e il dolore. E poi loro, i fedeli sopravvissuti, nuovamente nel fango, fradici, rapiti da un pontefice che dichiarava la sua impotenza, il desiderio di tacere, il bisogno, quasi fisico, di aggrapparsi, come un bambino alla mano della Madre di Dio. Tanti gli istanti da fissare: Francesco che raccoglie nelle sue mani, durante l’offertorio, il pianto di alcuni sopravvissuti al tifone, un papa anziano e scosso che si lascia inondare dalle lacrime, e, grave in volto, si abbandona al dolore che ha davanti, facendolo suo. Quando alla fine della celebrazione, parte alla volta di Palo, sa già che non potrà rimanere a lungo per il peggiormento delle condizioni meteo. Allora si concede, senza sosta, lungo i 12 Km di percorso che lo separano dall’arcivescovado della cittadina. Sotto la pioggia a vento, riparato solo dal tetto trasparente del veicolo, saluta sempre in piedi le migliaia di volti, braccia, corpi che si agitano su uno sfondo in cui palme e bandiere iniziano a piegarsi alla forza della natura.



Lungo il tragitto si ferma a visitare una casa di pescatori per condividere con la gente il ricordo del dramma che due anni fa spazzò via gran parte dei loro sogni, insieme a familiari e amici. Poi il pranzo in arcivescovado che diventa la scusa per incontrare altri sopravvissuti: ascolta tutte le storie di dolore e perdita che gli vengono presentate, si concede a ciascuno dei presenti. E piange. Poi l’arrivo in cattedrale, l’antica chiesa fondata dai gesuiti, assediata dalla gente. Dentro le panche semivuote, per l’anticipo sul programma di quasi tre ore. Francesco entra di corsa, la tonaca bagnata, il viso segnato da una sofferenza nascosta. Il tempo per gli auguri al cardinale di stato che compie gli anni, l’Ave maria, e il riferimento al meteo che non gli concede alternative, poi via di nuovo verso l’aeroporto.



Il Papa in volo verso Manila, con la veste bagnata, inseguito dalla tempesta. Si saprà dopo della morte di Krystel, la volontaria colpita da un pezzo di impalcatura impazzita per la furia del vento, l’ultima vittima dell’inferno d’acqua, arrivata bagnata in paradiso. E della sofferenza del Papa per l’ennesima morte di Leyte. Come, una volta a Manila, scopriremo che il nostro aereo, con a bordo il successore di Pietro, è stato l’ultimo a decollare dall’aeroporto di Tacloban, prima della sua chiusura per le impossibili condizioni meteo. Sapremo che c’è un eroismo che non sfugge alla povera gente, una volontà di essere presente alla sofferenza altrui che commuove e muove. Un modo di predicare che prende le viscere e il cuore, li stritola e li restituisce consolati. Sapremo che si può essere padre anche in silenzio. Semplicemente guardando la Croce o prendendo per mano la mamma celeste. E sapremo che saremo sempre grati di essere stati testimoni di tutto ciò.

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