MANILA — Per fortuna che Francesco ha sdoganato le lacrime. Una bella rivincita per noi piagnone. Perché, è chiaro, le lacrime sono delle donne. Ha pianto Glyzelle, 12 anni, sul palco nell’Università di Santo Tomas. Ha pianto e le sue lacrime hanno costretto il Papa ad abbandonare un discorso freddo e forse inutile per un altro capolavoro a doppio binario, spagnolo-inglese. 



In una Manila ormai ostaggio dei milioni di fedeli e ricattata dal cielo, nell’ultimo giorno della sua visita nelle Filippine, il Papa ha deciso di regalare il migliore Bergoglio. Forse è stato sopraffatto dall’umanità incontenibile, impossibile da evitare con lo sguardo anche per un solo istante, che si è riversata per le strade, oppure ha semplicemente pensato che la storia della piccola ragazzina di strada che aveva di fronte meritava di più che frasi lette ad una massa anonima. 



Lui stesso, alla fine di un lungo colloquio con la chiesa giovane e bagnata di Manila, ha detto che la “realtà supera l’idea” e che “la realtà” che aveva davanti superava “tutto ciò che aveva preparato”. Perciò la prima perla: la Chiesa a volte pecca di “machismo”. Per continuare con “la donna è capace di vedere cose con occhi diversi dagli uomini” (per fortuna aggiungo io) e “le donne fanno domande che gli uomini non sono capaci di porre”.  

Era stata sempre la piccola Glyzelle a pungere il cuore con la drammatica questione, pesante come una pietra, sulla sofferenza dei bambini, sul loro martirio per le strade di Manila. Una domanda per cui non erano sufficienti le parole scritte sul foglio. Una domanda che aveva bisogno delle lacrime. E così Francesco ha spiegato la teologia del pianto: solo quando si è capaci di far scorrere le lacrime davanti alla sofferenza dei piccoli si può porre il grido a Dio. Il primato è della compassione. Quando sei capace di “commozione” davanti all’umanità abbandonata, ai bambini sui marciapiedi come stracci, agli anziani coperti fino alla testa negli angoli delle strade, alle famiglie sudicie tra i cartoni, alle ragazzine costrette ai tacchi alti e al rosso violento sulle labbra, insomma quando riesci a sentire il dolore del grado zero della dignità altrui, allora puoi iniziare ad alzare la voce con Dio.



Non una “compassione mondana” — ha detto il Papa —, quella di qualche moneta tirata fuori dalla tasca, ma il miracolo del pianto di Cristo. Certe cose della vita si vedono solo con gli occhi “resi limpidi dalle lacrime”, ha spiegato Francesco. Ed è questo che manca all’uomo di oggi. Deve imparare nuovamente a piangere. Di fronte a certe croci, c’è una sola alternativa al viso rigato, il silenzio. E le lacrime arrivano quando si impara ad amare e a lasciarsi amare. 

Quando si perde la vergogna per quell’impotenza totalmente e completamente umana. Quando si sente l’urgenza di mendicare un senso. Che a volte diventa Presenza. 

Il Papa prima di immergersi tra i milioni di anime che hanno popolato la megalopoli asiatica, ha spiegato il segreto del suo cuore e ha dato una lezione a certi cristiani che irridono il cristianesimo “di pancia”, l’apparente sentimentalismo che colora la fede, la devozione dei rosari e dei “santi Ninos”, i bambolotti coperti di lustrini che sventolavano tra la folla di Manila. No, la teologia della compassione non indebolisce la ragione. La precede. Le dona la forza e il coraggio necessari per indagare il Mistero. Di più, giustifica l’audacia dell’uomo che arriva a sfidare Dio. E poi finalmente ad amarlo.

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