Ashley Bridges ha 24 anni, è americana, e malata di tumore osseo. Una delle forme di cancro più terribili e dolorose. Ashley, che ha due occhi grandi da bambina, è sposata, ha due figli, Braiden e Paisley. Il più grande ha sei anni, e ha capito benissimo il dramma che si vive a casa. Ha capito che la mamma sta per volare via, e vuole andarsene con lei. Paisley non comprende, ha soltanto due mesi. Nata leggermente prematura, è il raggio di sole della sua nera notte di dolore e paura. Lo è ogni figlio per ogni madre. Lo è ogni figlio per una madre che è chiamata a una tale sofferenza. Ma Paisley di più, perché sua madre l’ha voluta e amata a tal punto da dare la vita per lei. A poche settimane dall’inizio della gravidanza, la diagnosi tremenda. Si può agire subito, combattere. Ma la chemioterapia è letale per il bambino che porta in seno, i medici le consigliano un aborto terapeutico, e Ashley rifiuta.
Non vuole affatto immolarsi, accetta tutte le cure, ma che non mettano a rischio la vita di sua figlia. Che nasce, sanissima, con un cesareo d’urgenza, appena raggiunto il peso minimo. Si può riprovare, vedere se i farmaci possono aggredire ancora il male. Ma Ashley si sta spegnendo, si parla di un paio di mesi al massimo.
Come ha avuto la forza, questa mamma adolescente, il coraggio, la lucida e strabordante generosità, di dare tutto. Tutte le madri, in coscienza, direbbero sì di slancio, ad offrire la propria vita per un figlio. Ma appena generato, appena palpitante nel tuo ventre, quando ancora non l’hai visto in viso, quando hai un altro bimbo che ti abbraccia, piange, e vorresti vederlo crescere. E’ un’altra cosa, si direbbe che è tutt’altra cosa. E invece Ashley, come Gianna Beretta Molla, come Chiara Corbella, non ha esitato, ha ben chiaro che è la stessa cosa.
Una vita è tale e vale l’infinito, da sempre, da quando appare sulla scena del mondo. Lo so che non lo pensa nessuno. Lo so che il suo eroismo sarà preso per fanatismo incosciente. Qualcuno oggi leggendo la notizia tirerà in ballo il papa. E il caso da lui citato di una donna che dopo sette cesarei era rimasta incinta l’ottava volta. “Lei vuol tentare Dio! Vuole lasciare orfani sette bambini?”. Ho letto la storia di Ashley con nella mente il pensiero delle parole di Francesco. E sono certa: abbraccerebbe Ashley rincuorandola, accarezzando il suo dolore, piangendo con lei e ringraziandola per la sua testimonianza.
Non c’è sfida, in questa mamma, non c’è imprudenza. Non c’è nessuna bandiera ideologica da sventolare. C’è la follia della santità, che non è per tutti, ma solo per la nostra debolezza. Non è da tutti, e non dobbiamo vergognarcene, ma ringraziare che ci siano dati questi umili e grandiosi segni della certezza cristiana. Non ha rischiato la vita volutamente, Ashley, non ha peccato di orgoglio nel voler portare a termine una gravidanza contro il buon senso e la medicina. Ashley e suo marito volevano un altro bimbo, un fratellino o una sorellina per Braiden. Non sapeva di essere ammalata, è l’ultima cosa che puoi pensare, a 23 anni. Se l’avesse saputo, avrebbe fatto di tutto per non rimanere incinta, curarsi immediatamente, e cercare di salvare la sua vita e la felicità della sua famiglia. Avrebbe cercato i mezzi leciti, facendosi consigliare, e pure non leciti, facendosi aiutare e chiedendo comprensione, che avrebbe avuto, perché ogni caso è a sé, ogni uomo è un mistero e un bene assoluto, e nessuno l’avrebbe mai giudicata.
Ma quella bambina, Paisley, viveva già in lei, spegnerla non avrebbe neppure garantito la sua, di vita. E sarebbe vissuta con la pena, o sarebbe volata via con il cuore ferito, e quel raggio di sole non si sarebbe neppur acceso, a riscaldare questi suoi ultimi giorni colmi di tenerezza e di fiducia nel futuro. Anche senza di noi, che siamo così preziosi agli occhi di Dio, ma non possiamo tutto. Non siamo padroni di noi e dei nostri figli, e non li lasceremo mai, comunque, per sempre.