Nel messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali, che il Papa lega a quello della famiglia, argomento del prossimo Sinodo, si riafferma che la prima condizione del comunicare è che esista un soggetto. E’ questione di identità, non di abilità (anche se tra i cattolici un po’ più di tecnica non guasterebbe). Si può notare che, a dispetto del nome, i social media sono la forma più nuova di comunicazione, ma anche la più impersonale. 



Il Papa afferma poi che occorre “reimparare a raccontare, non semplicemente produrre e consumare informazione” (corsivo nel testo). Che la vera comunicazione sia un racconto non è banale. Da Aristotele in poi, gli studiosi insegnano che il racconto non è una semplice serie di informazioni, ma esige una trama, cioè un nesso significativo, causale, tra le sue parti. Leggiamo ancora il Papa: “raccontare significa comprendere che le nostre vite sono intrecciate in una trama unitaria, che le voci sono molteplici e ciascuna è insostituibile”. Ogni voce è insostituibile, si direbbe preziosa: è una affermazione bella e rivoluzionaria che, tra l’altro, conforta anche chi la voce ce l’ha un po’ flebile. 



Il pericolo della nostra società, fondata sullo strapotere dei media, non è dunque la loro immoralità, né la loro invasività, né la loro vorticosa evoluzione tecnologica. Certo, sarebbe preferibile meno volgarità, ogni tanto staccare la spina e padroneggiare la tecnica invece che esserne soggiogati. Ma il punto è il bombardamento, il gigantesco flusso di informazioni senza nesso, senza unità. La menzogna è nel vuoto; si annida nell’accumulo di tanti piccoli frammenti staccati, ciascuno di per sé insidiosamente ambiguo nella sua verosimiglianza, nella sua plausibilità. 

Eliot dice che l’inferno è il luogo dove nulla è connesso con nulla. Paradossalmente ciò avviene proprio nel tempo della massima connettività. Disponiamo di migliaia di link, ma sono anelli che non formano una catena, grani senza rosario. Gli intellettuali francesi hanno dato a proposito interessanti contributi (non solo Ricoeur, anche le scuole per altri aspetti assai poco condivisibili). Gli americani invece hanno insegnato un ulteriore caposaldo della narrazione: il finale. In passato ad Hollywood il lieto fine era un “must”. Oggi invece assistiamo sempre più frequentemente a finali “aperti”, a storie volutamente sospese. Altro indicatore di una mutazione in atto. Eppure, la più semplice e naturale domanda dell’uomo non è forse: come va a finire? 



Va notato comunque che l’importante è che il finale ci sia, seppure ancora non lo si conosce. In fondo, anche sull’epilogo della nostra vicenda personale e sociale è buio fitto. Di per sé non sappiamo neppure quanto durerà, chiamiamolo così, lo spettacolo. A un certo qual punto — dice il Vangelo che sarà come la sorpresa di trovarsi un ladro in casa — si accenderanno le luci, guarderemo finalmente in faccia i nostri vicini e…

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