La sentenza di condanna degli attivisti No Tav non costituisce di per sé un problema. Il ricorso alla violenza non è mai legittimo, né tollerabile. Se esistono dei militanti che ritengono che la protesta si esprima con il boicottaggio dei lavori, le devastazioni dei cantieri e le molotov sulle forze dell’ordine, questi compiono dei reati e incorrono inevitabilmente nelle pene previste dal codice penale. Chi come Erri De Luca, pur non partecipando, ritiene che la violenza sia una risposta legittima e la applaude invitando al “sabotaggio” si rende colpevole di un reato che si chiama “istigazione a delinquere”.
Ciò che costituisce un problema è invece il fatto che la serie di ovvietà appena scritte non risultano affatto tali per questa componente minoritaria del nostro universo culturale, anzi al contrario, costituiscono delle pericolose concessioni verso il potere dominante e finiscono per avvallarne i disegni, verosimilmente inconfessabili, che lo strutturano. Per questa componente il valore supremo, quello realmente incontestabile, è il diritto all’indignazione, in nome del quale ogni reazione è legittima purché sia “popolare”, coinvolga cioè fasce della popolazione e veda quest’ultime possibilmente come protagoniste della rivolta stessa.
Il problema è dato dall’eccezionale persistenza di questo tipo di analisi a dispetto di tutte le possibili smentite provenienti dalla realtà. Si tratta di un percorso concettuale assolutamente trasparente rispetto a qualsiasi serie di verifiche empiriche; un percorso che si fonda su un assioma originario assolutamente autoreferenziale, tale da chiudere chi lo sottoscrive in un percorso circolare logicamente insensibile a qualsiasi argomentazione. Tale assioma è quello proveniente da una variazione radicale del principio relativista: quella per la quale c’è sempre uno spazio per un’altra verità, qualunque siano i fatti concreti che la smentiscono.
Questo principio che, in quanto tale, è inoffensivo fino a quando circola come semplice opinione, diviene sulfureo se si incrocia con la percezione di uno scenario sociale letto in termini eternamente asimmetrici, dove esiste un potere economico-politico da una parte e un dissenso sociale minoritario dall’altra. Per tale strada la verità eternamente smentita è proprio quella che corrisponde alla realtà e il carattere minoritario che la caratterizza non è che la conseguenza dell’occultamento di chi la vuole nascondere ed ha le risorse per farlo. Per questa strada la battaglia in difesa della verità minoritaria accede ad una lotta senza quartiere dove ogni reazione è legittima, anche quella illegale.
Un tale principio, che collega il relativismo radicale con una visione dicotomicamente conflittuale della realtà, penetra con incredibile facilità dentro le aule universitarie italiane e vi sopravvive assolutamente indisturbato da oltre quarant’anni. Il problema non è quindi solo di ordine pubblico, ma anche e soprattutto di carattere culturale. Una volta affermato che la realtà non è mai come sembra, che interessi corposi sono sempre all’opera e che i dati sono sempre falsificabili quando non addirittura già falsificati, si occupa una sorta di zona franca nella quale si finisce con l’essere sostanzialmente indifferenti a qualsiasi critica.
Le ragioni della sopravvivenza di un simile paradosso concettuale non poggiano solo sul ragionamento circolare sul quale questa logica si fonda, ma anche sulla profonda svalutazione delle istituzioni e la delegittimazione delle autorità messe entrambe in opera in modo particolare dalla sinistra culturale e diventate poi, a partire dagli anni 70, dei tratti particolarmente diffusi fino a costituire il paradigma dominante.
La delegittimazione delle istituzioni si fonda sul primato di una logica del sospetto che attraversa le cattedre universitarie, penetra nei salotti del potere culturale, si insedia tra gli attivisti della carta stampata e continua a circolare tra le frange dell’opinione pubblica. È l’influenza italiana, per dirla col Péguy di “toujours la grippe“: una tossina permanente della quale l’Italia non sa liberarsi.
Un’Italia relativista, costantemente malpensante, eternamente infida verso qualunque scelta e qualunque decisione è costantemente all’opera. Contro di questa non si ergono che istituzioni culturalmente deboli, il cui prestigio è costantemente eroso da un’opinione pubblica che non le riconosce. Proprio per questo la scia turbolenta dei No Tav, come di tutte le sigle che popolano questo variopinto consesso dell’indignazione permanente resta ancora saldamente insediata, nella piena indifferenza dinanzi ai fatti, ai quali costantemente si rifiuta di credere.