Dunque la popolarità di Papa Francesco cresce. E molto. Ce lo dice ufficialmente il Rapporto Eurispes. I consensi al suo operato sono praticamente un plebiscito: l’89,6 per cento. Al traino di Papa Francesco cresce anche il giudizio positivo sulla Chiesa, che arriva a livelli positivi mai raggiunti dal 2009 ad oggi, toccando il 62,6 per cento con un balzo importante anche rispetto al 2014, quando il barometro della fiducia segnava il 49 per cento. Impressionante l’effetto Bergoglio tra i giovani, tra i quali i consensi passano dal 27,1 per cento al 51,1 per cento nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni. 



Prima della rilevazione “scientifica” di Eurispes, semplicisticamente un po’ lo avevamo capito, dopo i sette milioni di fedeli alla messa di Manila. Ma ora abbiamo le statistiche. Tutti contenti, dunque? No. E i mugugni vengono, però, da dove meno te lo aspetti. Da ambienti cattolici abituati a una Chiesa che non piace al mondo, anzi quasi non “deve” piacergli — presa e compresa dalla “serietà” della sua missione. Insomma è come se il Papa smentisse l’imprinting penitenziale di un certo giudizio del mondo sulla Chiesa, che ben conosciamo, introiettato da non pochi fedeli. 



Ebbene sì. Si tratta proprio di questo. Francesco è proprio questa introiezione del giudizio di chi non conosce la “gioia del cristiano”, e la giudica dall’esterno come rinuncia, privazione ai colori della vita e delle cose, che vuole togliere dal cuore del suo gregge. E’ questa gioia che fa più vivi i colori della vita e delle cose, che il cristiano deve e può comunicare, perché l’ha incontrata in Cristo: è l’esperienza che fa del suo abbraccio. Forse l’indice di gradimento dei giovani ci dice proprio questo: che hanno capito, da Francesco, che l’esperienza di Cristo è vitalità, non mortificazione. Che invita a vivere, con fiducia; non a nascondersi alla vita, magari nel chiuso delle sacrestie. 



D’altro canto non c’è niente da meravigliarsi. E’ la “comunicazione di esistenza” — la sua personale esperienza di Cristo — che Francesco ha voluto mettere a programma del suo pontificato. E questo già con l’Evangelii gaudium nel novembre di due anni fa, dopo aver preso, in pochi mesi, le misure alla sua Chiesa. Francesco ha voluto ricordare fin dai primi passi del suo pontificato che all’inizio di tutto c’è la “gioia del Vangelo”, la “alegrìa del Evangelio” — com’è intitolata la versione originale in castigliano dell’esortazione apostolica con cui si è proposto al suo gregge — che «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù». 

La sorgente dell’azione evangelizzatrice è questo incontro con la gioia di Cristo, e se qualcuno «ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita», si chiedeva Papa Bergoglio, «come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?». Nel volto sorridente di Francesco, noi stiamo assistendo a questa gioia di Cristo in cammino; in una “teologia”, in un “discorso di Dio”, in un “parlare di Dio” non paludati, che di Dio, di Cristo non vogliono proporci il concetto, ma l’affetto, l’abbraccio. Un’evangelizzazione che non è «un eroico compito personale», anche questo diceva Papa Bergoglio nel novembre di due anni fa, “contro il mondo”, ma piuttosto un annuncio che non esclude nessuno, che non impone un nuovo obbligo, bensì «condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile». Mettendo sull’avviso il suo gregge, e i suoi pastori, che «la Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione”». 

Dobbiamo dolerci di avere un Papa e una Chiesa “attraenti”? O in realtà non dovremmo dolerci di non esserlo stati troppe volte, anche quando, con Cristo a fianco, potevamo ben esserlo?

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