Non passa giorno in cui il lettore dei quotidiani o l’utente di un  telegiornale qualsiasi non siano messi di fronte a un nuovo caso di corruzione negli ambiti istituzionali, in quelli delle grandi imprese, tra funzionari, dirigenti, appaltatori. Se non si è ancora giunti a una cinica accettazione del dato di fatto, prevalgono indignazione e sconforto per la convivenza civile così spesso violata. Non passa giorno in cui la necessità della legalità e della lotta alla corruzione non vengano evocate come condizioni per la crescita dell’Italia; ma questo tipo di richiamo non sembra sortire gli effetti sperati. Forse lo si sente rivolto agli altri, forse si è molto vissuto dell’illusione che il diavolo faccia le pentole e anche i coperchi.



Storia dolorosamente vecchia. Sallustio racconta della sua giovinezza trascorsa nell’impegno politico: “Tra i politici non trovai senso d’onore ma impudenza, non probità ma corruzione, non rettitudine ma avidità; e sebbene il mio animo, inesperto del male, rifuggisse da quelle pratiche, pure l’età acerba fu travolta dall’ambizione; sebbene dissentissi dai cattivi costumi degli altri, nondimeno rimasi invischiato in quell’ambiente corrotto”. 



Tacito afferma che tra i Germani “nessuno ride dei vizi, né dice di moda corrompere ed essere corrotti” e che tra i barbari “valgono di più i buoni costumi che altrove le buone leggi”. Giudizio sferzante di un senatore di Roma, patria del diritto. E aggiunge che proprio come nel corpo l’azione del farmaco è più lenta dell’azione del morbo, così anche in una società schiacciata da un potere cattivo, il gusto della libertà si risveglia con maggiore fatica.

Ognuno fa il suo gioco, è chiaro. Sallustio deve difendersi dall’accusa di essersi arricchito in modo enorme. Tacito combatte la sua battaglia da storico di famiglia patrizia contro quegli imperatori che avevano privato il Senato di ogni potere. Ma ciò non toglie verità alle loro affermazioni, al contrario le avvalora.



Per tornare a oggi, è utile spostare l’attenzione su un passo dantesco, centrale nel poema, quanto poco citato. Siamo a metà cammino, in quel 50esimo canto che mette a tema la libertà umana e, per bocca di Marco Lombardo, spiega il rapporto tra la gioia del Creatore e il desiderio che la creatura ha di parteciparvi: “Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore”.

Dante è poeta, e quanto realista, come e forse più dei due storici di Roma. Affinché la libertà umana non sbagli oggetto, occorre una guida per il desiderio del bene, occorrono una legge e un potere che scorgano da lontano “della vera città almen la torre”, lo scopo cui tende ogni azione.

Re e Legge per il cristiano coincidono con Gesù Cristo. Lui, guida e freno, argine e acqua che sorregge, disseta, conduce al buon fine ogni cosa.

Non è sufficiente, pare dire Dante insieme a molti altri cristiani, bearsi dell’attrattiva che il Signore esercita sulla vita cosciente dell’uomo. Essa è potente, ma può venire confusa con una emozione che svanisce, anche se poi riaccade più volte. Occorre ben altro. Forse l’esercizio della memoria che tenga “gli occhi fissi su Gesù, autore e perfezionatore della fede”. Forse qualcosa di cui poco si parla, perché sembra contraddire la libertà: l’impegno morale necessario per seguire le orme di Cristo. Eppure egli stesso lo chiede più volte nel Vangelo. Dopo aver salvato dalla lapidazione la donna adultera, la congeda con una parola molto chiara: “Va’ e d’ora in poi non peccare più”. E nel discorso della montagna ammonisce: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”. Si può discettare e interpretare, ma le parole alla lettera suonano così.

La moralità richiede il rispetto dei valori umani che la società elabora e riconosce, a prescindere dal fatto che siano disattesi da chi è più furbo o più potente. “Nulla di umano è estraneo a me”, diceva Terenzio; tanto meno lo sforzo presente in ogni gruppo organizzato per rendere possibile la vita comune e che il diritto romano ha scolpito nella formula: “Dove vi è società, lì è legge, affinché i cittadini non corrano alle armi”.