In un mondo in cui nei paesi cristiani va in chiesa al massimo un quarto della popolazione (e altrove molto di meno), senza neanche che tutti si accostino alla comunione a quanto è dato di vedere nelle messe, in cui la percentuale di chi si sposa è sempre più bassa, e di chi si risposa dopo un divorzio ancora minore, viene da domandarsi quanti siano i cristiani sposati-divorziati-e-risposati civilmente che vadano a messa e vogliano fare la comunione; e se questa percentuale con questo dilemma e le relative soluzioni sia tale da offuscare il quadro totale della dichiarazione finale del Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Perché a leggerla, la relazione finale dice ben altre cose “forti”, ma evidentemente i mass-media preferiscono guardare altrove. 



Primo tra tutti, il richiamo alle responsabilità dei governi rispetto alla famiglia: “Le famiglie soffrono in modo particolare i problemi che riguardano il lavoro. Le possibilità per i giovani sono poche e l’offerta di lavoro è molto selettiva e precaria. Le giornate lavorative sono lunghe e spesso appesantite da lunghi tempi di trasferta. Questo non aiuta i familiari a ritrovarsi tra loro e con i figli, in modo da alimentare quotidianamente le loro relazioni. La ‘crescita in equità’ esige ‘decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate'” (par. 14).



Secondo, il richiamo ai media: “Il sistema economico attuale produce nuovi tipi di esclusione sociale, che rendono spesso i poveri invisibili agli occhi della società. La cultura dominante e i mezzi di comunicazione contribuiscono ad aggravare questa invisibilità” (par. 15).

Terzo, il richiamo alle diocesi per un accesso sensato e cristiano al matrimonio religioso: “Il matrimonio cristiano non può ridursi ad una tradizione culturale o a una semplice convenzione giuridica: (…) sia migliorata la catechesi prematrimoniale — talvolta povera di contenuti — che è parte integrante della pastorale ordinaria” (par. 57).



E quarto, addirittura la richiesta di obiezione di coscienza degli insegnanti: “Nel cambiamento culturale in atto spesso vengono presentati modelli in contrasto con la visione cristiana della famiglia. La sessualità è spesso svincolata da un progetto di amore autentico. In alcuni Paesi vengono perfino imposti dall’autorità pubblica progetti formativi che presentano contenuti in contrasto con la visione umana e cristiana: rispetto ad essi vanno affermati con decisione la libertà della Chiesa di insegnare la propria dottrina e il diritto all’obiezione di coscienza da parte degli educatori” (par 58).

Infine il richiamo sulla teoria gender, sul rispetto della vita dal concepimento, sulla dignità di entrambi gli sposi e la loro complementarietà, e il ribadire la dottrina della Chiesa sulla trasmissione della vita. 

A fronte di questo, tutta l’attenzione si basa attualmente sulla comunione ai divorziati-risposati (spesso sui giornali definiti come “divorziati” e basta, non centrando il problema), che oltre ad essere realmente un numero esiguo rispetto a chi subisce tutti gli altri problemi citati nella relazione (disoccupazione, attentati alla vita, tratta di esseri umani eccetera), in fondo sembrano la scusa per non parlare del resto. 

Eppure nella relazione ci sono parole che inchiodano i governi alle loro responsabilità terrene ed eterne verso la famiglia; i giornali e i giornalisti a non dimenticarsi dei poveri o a parlarne solo in termini politici; le diocesi a custodire un accesso al matrimonio religioso non superficiale e quindi potenzialmente dannoso; gli insegnanti a non prestarsi ad ogni dottrina, che sia una dottrina di Stato che svaluta il ruolo della donna o che svaluta il ruolo della famiglia o della vita umana. 

Sarà per sensazionalismo, sarà per voglia di non parlare di quello che non piace, ma ci sembra che di questi temi, che sono in pratica l’asse portante della relazione, non abbia parlato quasi nessuno. 

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