Credo che per valutare gli esiti del Sinodo sulla famiglia racchiusi nel documento finale, ci si debba porre la stessa domanda che si è posto il Santo Padre nel discorso a conclusione dei lavori, quando i Padri sinodali avevano votato con la maggioranza richiesta dei due terzi, anche se sul punto più controverso (la comunione ai divorziati) per appena un voto di scarto, tutti i 94 punti del documento: «Che cosa significherà per la Chiesa concludere questo Sinodo dedicato alla famiglia?». E penso anche che la risposta migliore se la sia data lo stesso Papa terminando il suo intervento: «per la Chiesa concludere il Sinodo significa tornare a “camminare insieme” realmente per portare in ogni parte del mondo, in ogni Diocesi, in ogni comunità e in ogni situazione la luce del Vangelo, l’abbraccio della Chiesa e il sostegno della misericordia di Dio!». 



Tornare a “camminare insieme”: non solo la Chiesa, a cominciare dai Padri sinodali, dopo il confronto assolutamente franco sulle materie più spinose trattate (e Francesco non ha voluto tacere, anche per dare risalto al valore vincolante per tutti del documento finale del Sinodo, che quel confronto franco si è espresso «purtroppo talvolta con metodi non del tutto benevoli»); a camminare insieme sulla via non facile del “Vangelo della famiglia” oggi, in una società che vede profondamente in crisi i valori che per secoli ne sono stati fondativi; ma a camminare insieme con le famiglie e le loro difficoltà, e più in generale con una società spaesata, anche quella culturalmente cristiana. E questo non per cedimento dottrinale o pastorale, ma per assolvere al proprio ufficio di evangelizzazione oggi; per portare all’ascolto e all’adesione all’annuncio di Cristo una società disorientata e in evidente crisi persino su una struttura antropologica fondativa, la famiglia: per la società, prima ancora per la Chiesa, effettivo bene non negoziabile. E che proprio per questo non può essere gravata di pesi che non sia in grado di portare, siano essi pesi sociali, economici, culturali, ma anche, per quanto riguarda la Chiesa, di un magistero più attento alla lettera che allo spirito della dottrina: «Il primo dovere della Chiesa non è quello di distribuire condanne o anatemi, ma è quello di proclamare la misericordia di Dio, di chiamare alla conversione e di condurre tutti gli uomini alla salvezza del Signore».



E bisogna dire che il documento conclusivo del Sinodo ha verso la crisi della famiglia un approccio effettivamente pieno di misericordia: già nella narrativa friendly, amichevole, della situazione della famiglia nella società contemporanea, scevra da ogni occhiuto giudizio moralistico; dove anche i punti di dissenso non mediabili e non mediati (il gender, il matrimonio omosessuale) non assumono mai il tono dell’anatema, della discriminazione apriori di chi ne interpreti le istanze, ma piuttosto quello dell’analisi di criticità antropologiche della società contemporanea, su cui si è chiamati a riflettere tutti con serietà, una serietà a cui la Chiesa non può esimersi dal dare il suo contributo di dottrina e di esperienza umana. 



Così come un eguale approccio friendly, amichevole, alla famiglia e ai suoi bisogni il documento chiede con determinazione alla politica e alla società, che hanno grandi responsabilità nel determinare condizioni sociali ed economiche atte a sostenere e promuovere la famiglia generativa, cellula germinativa della società, quale che sia la sua cultura religiosa prevalente e persino il suo “laicismo”. Dove vive bene una famiglia, vive bene un uomo, o certo vive meglio. Questo è il convincimento dei Padri sinodali, che chiedono con forza che ad annunciare il Vangelo della famiglia, che certo essa fa alla luce della grazia, siano anche la società e la politica, dove forti sono le tendenze — dall’individualismo esasperato con le sue ideologie a visioni puramente orientate al profitto dell’economia, che disarticolano la necessaria solidarietà sociale — alla sua disgregazione. 

Rispetto a questa cura complessiva della famiglia in tutti i suoi aspetti, va detto che la materia del Sinodo è stata ben più ampia — come anche Francesco aveva voluto sottolineare in alcuni passaggi di questo anno di lavoro — dei pur rilevanti temi dell’accoglienza pastorale ai divorziati risposati e agli omosessuali. Temi che hanno trovato, con l’apertura ai sacramenti per i divorziati risposati affidata al discernimento pastorale, e con l’affermazione inequivoca che l’orientamento sessuale in nessun modo rileva quanto alla dignità della persona e al rispetto eguale che le è dovuto dalla società e dalla Chiesa, una risposta equilibrata ed umana, che definire “aperturista” è sminuire, perché se di apertura si tratta è l’apertura di sempre del cuore della Chiesa, del messaggio cristiano, che certo non rinuncia a proporre la verità liberante del vangelo, ma lo fa «sull’esempio di Gesù camminando sulle strade dove passa ogni giorno», come giustamente ha sintetizzato Monsignor Bruno Forte, segretario speciale del Sinodo, individuando nelle tre categorie di accompagnamento, discernimento e integrazione gli atteggiamenti pastorali di fondo che hanno guidato i lavori. Ed è questa la Chiesa di Francesco, che esce confermata dal Sinodo: una Chiesa che accoglie e integra, a braccia aperte, ma che nondimeno discerne: lo fa cioè ad occhi aperti, così aiutando tutti ad aprire gli occhi alla verità liberante del Vangelo.

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