La Terza sezione del Consiglio di Stato ha formulato una sentenza con la quale afferma l’insussistenza di qualsivoglia diritto alla trascrizione negli atti dello stato civile dei comuni di matrimoni tra coppie omosessuali celebrati all’estero (e, di conseguenza, la legittimità della circolare in data 7 ottobre 2014 con cui il ministro dell’Interno ne aveva ribadito l’intrascrivibilità in Italia), una trascrizione con la quale «si finirebbe per ammettere, di fatto, surrettiziamente ed elusivamente il matrimonio omosessuale anche in Italia, tale essendo l’effetto dell’affermazione della trascrivibilità di quello celebrato all’estero tra cittadini italiani, nonostante l’assenza di una previsione legislativa che lo consenta e lo regoli (e, anzi, in un contesto normativo che lo esclude chiaramente, ancorché tacitamente) e, quindi, della relativa scelta (libera e politica) del Parlamento nazionale» (Sentenza Consiglio di Stato 26.10.2015, § 2.9).



Di particolare rilevanza in questa sentenza è l’argomentazione — non obliqua e propriamente di ordine della filosofia del diritto civile matrimoniale — con la quale i giudici hanno riconosciuto «il matrimonio omosessuale» come «incapace, nel vigente sistema di regole, di costituire tra le parti lo status giuridico proprio delle persone coniugate (con i diritti e gli obblighi connessi)»: la ragione, lucida e diretta, è che il preteso «matrimonio omosessuale» risulta «privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio» (Sentenza cit., § 2.1).



L’interrogazione sulla validità ed efficacia del «matrimonio omosessuale» eventualmente contratto da cittadini italiani al di fuori del nostro Paese viene così liberata dalle inconcludenti diatribe sulla «catalogazione squisitamente dogmatica del vizio che affligge il matrimonio celebrato (all’estero) tra persone dello stesso sesso (che si rivela, ai fini della soluzione della questione controversa, del tutto ininfluente)» — ossia se «si tratti di atto radicalmente invalido (cioè nullo) o inesistente (che appare, tuttavia, la classificazione più appropriata, vertendosi in una situazione di un atto mancante di un elemento essenziale della sua stessa giuridica esistenza)» (ivi) — e riconsegnata al duplice alveo che le è proprio, quello della riflessione sulla realtà normata così come essa è e si manifesta alla ragionevolezza umana («connotazione ontologica») e quello dei princìpi antropologici e sociali che ispirano l’ordinamento giuridico nazionale a partire dalla Costituzione.



Si tratta dunque, come saggiamente i giudici del Consiglio di Stato hanno operato, di riconoscere e applicare la differenza qualitativa che contraddistingue i giudizi di ragionevolezza da quelli di razionalità intesa come coerenza e non contraddizione dell’ordinamento giuridico, che pure hanno un loro peso nella giurisprudenza nazionale e internazionale. Come ha sottolineato la costituzionalista Marta Cartabia, «razionale e ragionevole sono due aggettivi che esprimono, entrambi, conformità a ragione; tuttavia non si tratta di termini equivalenti e interscambiabili, perché […] essi presuppongono una diversa idea di ragione» (I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, Roma, pro manuscripto, 2013, p. 16). 

La ragionevolezza giuridica supera, senza rinnegarlo, il ragionamento giuridico logico-formale, tipico di una concezione del giudicare in termini sillogistico-deduttivi, aprendosi alla realtà come una finestra che si spalanca sul mondo dell’humanum per coglierlo secondo tutti i suoi fattori costitutivi (nel caso in esame, il matrimonio nella sua essenzialità, che implica una comunione di vita tra soggetti di sesso diverso ma uguali nella dignità, nei diritti e nei doveri reciproci). «Tuttavia, affermare che il principio di ragionevolezza non appartiene alla razionalità logico-formale di tipo deduttivo non equivale a degradarlo ad una forma di “pensiero debole”. Al contrario, il ragionevole esprime una ragione potenziata e più adeguata all’ambito dei comportamenti umani che essa è chiamata a conoscere attraverso il diritto. Il controllo di ragionevolezza esige una ragione concreta. […] L’universo giuridico ha bisogno di entrambe le espressioni della ragione: ha bisogno di coerenza interna e ha bisogno di apertura sulle vicende umane e sociali che deve regolare» (ivi).

Così, la lettura ragionevole dei disposti degli artt. 27 e 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), che stabiliscono i presupposti di legalità del matrimonio in Italia, e dell’art. 115 del codice civile, che assoggetta i cittadini italiani all’applicazione delle disposizioni codicistiche che stabiliscono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio anche quando l’atto viene celebrato in un paese straniero, non esclude la lettura razionale (combinata) degli stessi articoli, ma la include, suggerendo — come hanno esplicitato i giudici nella sentenza — «l’enucleazione degli indefettibili requisiti sostanziali (quanto, segnatamente, allo stato ed alla capacità dei nubendi) che consentono al predetto atto di produrre, nell’ordinamento nazionale, i suoi effetti giuridici naturali»: anzitutto, «la diversità di sesso dei nubendi quale la prima condizione di validità e di efficacia del matrimonio, secondo le regole codificate negli artt. 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis del codice civile». Una condizione di validità ed efficacia che risulta essere «in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna» (Sentenza cit., § 2.1).

La ragionevolezza della conclusione cui giunge la sentenza è difficilmente negabile se non si astrae dall’esperienza del matrimonio così come essa è stata vissuta nella società e nella storia del nostro Paese. Infatti, «”ragionevole” designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza» (J. Guitton, Arte nuova di pensare, Paoline, Cinisello Balsamo, 1986, p. 71). Una esperienza “laica”, che appartiene di fatto ad ogni donna e ad ogni uomo, senza presupporre una filosofia o una rivelazione particolare che sottenda e condizioni questa “cultura del matrimonio” che appartiene a tutti. Ma che dalla fede cristiana riceve una luce particolare che ha alimentato il vissuto e l’istituzione del matrimonio come «la sola unione coniugale tra un uomo e una donna». 

Come ha scritto San Giovanni Paolo II nel 1981, «Il “luogo” unico, che rende possibile questa donazione secondo l’intera sua verità, è il matrimonio, ossia il patto di amore coniugale o scelta cosciente e libera, con la quale l’uomo e la donna accolgono l’intima comunità di vita e d’amore, voluta da Dio stesso (cfr. Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 48), che solo in questa luce manifesta il suo vero significato. L’istituzione matrimoniale non è una indebita ingerenza della società o dell’autorità, né l’imposizione estrinseca di una forma, ma esigenza interiore del patto d’amore coniugale che pubblicamente si afferma come unico ed esclusivo perché sia vissuta così la piena fedeltà al disegno di Dio Creatore. Questa fedeltà, lungi dal mortificare la libertà della persona, la pone al sicuro da ogni soggettivismo e relativismo, la fa partecipe della Sapienza creatrice» (Es. ap. Familiaris consortio, 11).

Al di là della coscienza individuale e della eventuale fede dei singoli giudici, questa sentenza del Consiglio di Stato non rappresenta né l’espressione di una visione particolare, esclusiva del matrimonio, impervia alla ragione e ispirata da una concezione confessionale di questo istituto fondamentale della società, né un’indebita ingerenza della magistratura nei lavori parlamentari e nei dibattiti politici intorno a disegni di legge volti a normare giuridicamente alcune forme di convivenza civile. Essa ha inteso riproporre un’evidenza di sempre che ha ispirato il riconoscimento civico dell’unione coniugale così come essa si dà tra una donna e un uomo. Un riconoscimento di fatto e di diritto, che non ha bisogno di nessuna benedizione per essere a fondamento della società civile, ma che la Chiesa non può non promuovere e difendere, insieme a tutte le donne e gli uomini la cui esperienza rendere ragionevole la ragion d’essere del matrimonio tra un uomo e una donna.