NEW YORK —  “Povera voce di un uomo che non c’è”, dice una canzone che mi è molto cara. Sono tante le povere voci di questo mondo. A volte sussurrano un pianto, a volte gridano di rabbia. Invece di svegliarsi al richiamo della bellezza del sole che sorge, oggi l’America si è svegliata alle urla disperate di Roseburg, Oregon. Anche oggi, come ormai accade con frequenza spaventosa da tanti anni. Se solo riandiamo alla strage della High School di Columbine nel 1999, sono 32 gli episodi di mass shooting in cui la follia di qualcuno ha rubato la vita a tanti. L’altro ieri l’ultimo episodio: un giovane ventiseienne che spara all’impazzata portando terrore e morte al campus dell’Umpqua Community College, uno di quei posti dove chi non è in condizione di andare all’università cerca uno spiraglio di luce per un futuro migliore. Dieci vite volate via, tanto dolore per chi vi è direttamente coinvolto, ma anche — lo ha ammesso Obama ieri sera — il rischio di farci il callo. 



Possiamo abituarci anche a questo come in un modo o in un altro finiamo per abituarci a tutto, aggiungendo un altro tassello sgradevole al puzzle della nostra società? Spiacevole, ma frutto dei tempi. E poi, chissà, prima o poi passerà anche questa “tragica moda”. Magari quando verrà alla luce una normativa più rigorosa sul porto d’armi, oppure quando avremo inventato sistemi di sicurezza tali da non dover mai temere per l’integrità nostra e dei nostri figli. Oppure ancora seguendo la strada opposta scegliendo di dar retta a quel che disse il vicepresidente della National Rifle Association dopo la strage di bimbi a Newtown, Connecticut: “L’unico modo per fermare un cattivo armato è un buono armato”.



Chris Harper Mercer, il killer di Roseburg, non può che essere un folle. Così come devono esserlo stati Dylan Storm Roof in quella chiesa protestante di Charleston, James Holmes in quella sala cinematografica di Aurora e tutti gli altri. Ma perché così tante esplosioni di violenza? E cos’è mai questa follia? Da dove viene? La follia e le sue manifestazioni violente sono certamente sempre esistite, ma oggi sembrano attecchire in maniera contagiosa. E noi ci conviviamo, non ci riguardano più di un tanto finché non toccano la pelle nostra. Non credo occorra essere né sociologi né psicoanalisti per riconoscere il doloroso filo che lega tutti questi drammi, oggi molto più di ieri: è la povera voce di un uomo che non c’è. Non c’è, non sa quello che vuole perché non è voluto, non sa amare perché non si sente amato, non ha vita perché la sua vita non ha consistenza in niente e nessuno. Un povero uomo che non c’è ma vuole esserci, ha un disperato bisogno di esserci. E se non sono capace di guadagnarmi la vita mia, per essere, per esistere, per consistere, prendo la tua. 



Nei giorni trascorsi in America il Papa ha continuato a ripeterci di portare al mondo la gioia di Gesù, servendo i poveri, condividendo quello che abbiamo ricevuto. Possiamo regolamentare il porto d’armi, possiamo armare i buoni e disarmare i cattivi, ma i frutti saranno miseri. L’unica cosa che può portare frutto è il compito che ci ha affidato il Papa. Anche se la nostra voce è povera bisogna fare come lui: abbracciare quelle voci che sono ancora più povere delle nostre. Abbracciarle con la forza di chi sa di essere stato abbracciato.