Come in una mela giunta alla sua piena maturazione, l’intervista con la quale monsignor Krzysztof Charamsa, teologo della Congregazione per la dottrina della fede e segretario aggiunto della Commissione teologica internazionale, ha dichiarato la sua omosessualità al Corriere della Sera, mettendo sotto accusa l’omofobia nella Chiesa e presentando al mondo intero il suo “vero compagno”, ha una buccia, una polpa, un torsolo e un seme.
La buccia, fin troppo evidente, è l’organizzazione mediatica dell’evento: la prima pagina del quotidiano di via Solferino, la conferenza stampa e la data scelta sono tutti ingredienti di una sapiente regia. I media italiani, quelli che si aspettano tanto, troppo, da papa Francesco hanno teso una vera e propria trappola al Pontefice con l’obiettivo di metterlo con le spalle al muro alla vigilia del delicatissimo Sinodo sulla famiglia.
Compreso che sulla questione divorziati-risposati la parola “fine” era stata detta dai due motu proprio di inizio settembre, alla vigilia dell’assise ecclesiale il circuito mediatico ha portato tutta l’attenzione sulle unioni omosessuali e ha deliberatamente usato la storia di un uomo, di un prete, di un collaboratore della Santa Sede, per fare esplodere una bomba, mettere alla prova il tasso di riformismo del Papa e seminare confusione e zizzania fra i credenti. Non cadere nell’inganno della buccia — e quindi non scendere a dialettizzare sul terreno delle unioni omosessuali e sulla presenza di omosessualità nella Chiesa — è, per tutti i cattolici, un preciso gesto di responsabilità verso la loro Madre.
D’altronde, la risposta forte del Vaticano indica che è prioritario non permettere indebite pressioni sul Sinodo da parte di terzi, tutelare in ogni modo la libertas ecclesiae da chi vorrebbe una Congregatio fidelium cortigiana del mondo e ancella del potere.
Ma l’ingerenza plateale nasconde una polpa tutt’altro che secondaria. E’ evidente che esiste qualcuno — dal di dentro della curia romana — che proprio come ai tempi di Benedetto XVI tenta di sabotare la Chiesa, di pilotarla riducendone la portata sul mondo e sulla storia. Potenzialmente il dilagare di questi gesti clamorosi (la parola “coming out” è troppo triste per poter essere usata) è più pericolosa dello stesso scandalo pedofilia perché racconta di una fede che non regge l’umano, che lo soffoca, che lo comprime per farlo definitivamente scomparire. E infatti, come si vede bene sui siti di tutto il mondo, chi vuol fare della fede una forma di ipocrisia che oscura l’umanità e che, per esistere, ha bisogno di essere aggiornata, ossia ridotta, svuotata, resa inutile orpello privato, canta vittoria.
Il torsolo di questa storia, tuttavia, è ancora più doloroso. Il vero dramma di Krzysztof Charamsa, infatti, non è quello di essere omosessuale, ma di portare l’attacco al cristianesimo laddove lo aveva portato la pedofilia, ossia al sacerdozio.
A prescindere del dibattito sull’omosessualità, non può esistere che un prete della Chiesa cattolica latina abbia un “compagno”, perché non esiste neppure che abbia una “compagna”, dal momento che il suo stato di vita è una profezia del fatto che ciò che serve al cuore dell’uomo non sono gli affetti del mondo, ma l’amore di Dio.
Il celibato non è un incidente di percorso del sacerdozio occidentale, ma è l’annuncio più grande che la Chiesa possa fare al cuore di ciascuno: noi siamo al mondo, tu sei al mondo, perché sei destinato ad “essere di Cristo” e niente può davvero scaldarti l’anima se non la Sua Misericordia quotidiana. Dire che il sacerdozio non sta in piedi è dire che il cristianesimo non sta in piedi. Con il sacramento dell’ordine Krzysztof Charamsa ha smesso di essere soltanto “uomo”, è diventato “sacerdote”: il sacramento ha cambiato il suo sostantivo di riferimento e lo ha trasformato in una “cosa” nuova per cui il suo stesso corpo, la sua stessa carne è diventata testimonianza per il mondo intero.
Proprio per questo, e non per altro, Charamsa suscita un sospiro profondo in ogni prete: il seme di tutta questa vicenda, in effetti, è un’umanità che — per l’ennesima volta — non vive un percorso autentico di maturità affettiva. Lo abbiamo visto poche settimane fa col matrimonio e la dichiarazione di nullità, lo vediamo oggi nel sacerdozio: la mancanza di una vera maturità affettiva è, per la generazione nata e cresciuta sul finire del secolo scorso, la vera emergenza. Giovani e meno giovani, sposati o single, preti o suore, tutti — in qualche modo — vivono il dramma di trovare una loro consistenza e non riescono a sperimentare una pienezza di assetto emotivo e relazionale nelle forme classiche della società cristiana.
Questa è quindi la domanda profonda per la Chiesa e per il Sinodo, questa è la domanda che in definitiva tutta la giornata di ieri ci lascia in eredità: può un uomo, o una donna, che prende una decisione per sempre, essere davvero felice? Come può una persona del nostro tempo riscoprire che è solo nella definitività che l’amore giunge alla sua vera profondità? La posta in gioco, al Sinodo come nella quotidianità, è a questo livello, al livello della verifica della pertinenza della fede alle domande originali della vita; il resto — chiaramente — è solo buccia, solo polpa, solo torsolo. Qualcosa che ha le fattezze e le sembianze di un frutto avvelenato e che un uomo di Dio ha mostrato attraverso una storia raccontata non per amore, ma per il gioco di qualcun altro.
Insomma, pare proprio che ancora una volta ci troviamo alla vigilia di un Sinodo dove la Discordia cercherà di gettare sul tavolo il suo frutto avvelenato. Possiamo solo chiedere che questa volta a coglierlo non sia né Eva, né alcun’altra divinità pagana. Ma solo la mano piena di tenerezza della Vergine Maria, Madre di Dio, Madre della Chiesa.