Succede a Taranto. Una delegazione di massa di operai in lotta per il posto di lavoro sceglie la strategia dell’occupazione. Non però l’occupazione delle fabbriche, come accadeva nel terribile ’21 del secolo scorso a partire dalla Torino di Gramsci, col risultato di scatenare la reazione e aprire la via di Roma a Mussolini. Tant’è che a rimpiangere i bei tempi di quel disastro c’è rimasto solo il Landini della Fiom. Nemmeno occupazione, che so?, di una casa popolare, né della sede di un’istituzione politica, né di un ufficio del vice-maresciallo della finanza. Occupazione de che, allora? Della canonica. Questi qui di Taranto si sono asserragliati in casa del prete. Oddio, occupazione per modo di dire. Più esatto il termine “sistemazione”. Cercavano una location, il prete gli ha detto: prego, si accomodino, ho giusto libera la cappella annessa ai locali della parrocchia; certo le panche di legno non sono il massimo per il riposo del guerriero-operaio, ma ho buone entrature alla Permaflex, insomma ai materassi ci penso io.



E’ una storia che, raccontata così, può far sorridere. Ma pensate la differenza con la storia dei due mega-manager Air-France che cercano salvezza da una ciurma di lavoratori dei cieli scalando affannosamente la rete di recinzione, sbrindellati e seminudi come due vu’ cumprà coi pantaloni firmati. Tutta un’altra cosa.

I problemi all’origine delle due vicende sono assai simili: centinaia, migliaia di lavoratori a casa, e centinaia, migliaia di famiglie alla fame. A Taranto (come non fosse già abbastanza strapazzata dalla vicenda giudiziaria dell’Ilva) rischiano il lastrico salvo un miracolo 230 operai della Taranto Isolaverde (gestione servizi ambientali, rifiuti compresi), società in house della Provincia, messa in liquidazione, come è prevedibile che accada per un’azienda posseduta da un ente in abolizione. In Francia i dipendenti della compagnia di bandiera che rischiano la ghirba sono 2900, più di dieci volte i nostri pugliesi: volete mettere la grandeur?

Lasciamo perdere l’Oltralpe. I duecento e passa della Taranto Isolaverde hanno trovato casa in chiesa. Il parroco, don Marco Gerardo, li ha accolti e gli rimbocca le coperte mentre loro attendono che le istituzioni facciano il miracolo, la Regione post-Vendola di Emiliano tiri fuori i soldi e le altre facciano la loro parte. Del resto a indurre le istituzioni, un po’ distratte, ad aprire il file Isolaverde, è stato l’arcivescovo Filippo Santoro, che ha promosso e ottenuto un apposito vertice in Prefettura. Don Marco di rapporti con l’arcivescovo se ne intende: ha cariche importanti nella diocesi e vanta nel suo curriculum anni di lavoro come segretario particolare del precedente porporato, il quale, per non farsi mancare nulla, aveva per cognome Papa.

Resta il fatto che gli operai di Taranto hanno scelto come riferimento la Chiesa. Forse perché non avevano altra scelta: ma se anche così fosse… Nel cuore della Chiesa, di una canonica, hanno posto il loro quartier generale. E’ una cosa grande nella semplicità di quattro materassi (nuovi). Il Carmine si è dimostrato fraternità aperta a una significativa periferia esistenziale, secundum ripetuti auspici di papa Francesco. E’ una bella storia, questa. Ma non è un uovo fuori dalla cavagna: è un piccolo segno di continuità con una grande tradizione della Chiesa viva. Spigolando tra le cose che saltano in mente: don Bosco firmò in nome dei suoi ragazzi alcuni contratti di lavoro con i loro padroni, a mo’ di tutore dei diritti sindacali in un tempo in cui il sindacato non c’era. Papa Leone XIII mise in guardia gli “straricchi” dal vessare gli operai, e per buona misura ci fece sopra un’enciclica. La Pira, non prete ma sant’uomo, da sindaco di Firenze salvò il posto e lo stipendio agli operai della Pignone, confidando nell’aiuto di Dio e nel salvataggio dell’Iri. Il cardinale Giuseppe Siri, che passava per il gran conservatore nella Chiesa post-conciliare, riuscì, lui solo, a trovare la via della trattativa e dell’accordo soddisfacente con i camalli che da mesi facevano tremare Genova. Padre Popieluszko, nella Polonia degli anni 80, si fece in quattro, rischiò la vita, e poi la perse proprio, da martire, per salvare l’anima e la vita degli operai e dar da mangiare alle loro mogli e ai loro figli quando finivano in galera.

Non so se è verità o leggenda, ma qualcuno raccontò che una prima bozza dell’enciclica Laborem Exercens, di papa Wojtyla da Cracovia (1981, a cent’anni dalla Rerum Novarum di Leone XIII e a cinquanta dalla Quadragesimo Anno di Pio XI da Desio) iniziava con la parola “compagni”, cioè con il modo con cui gli uomini del movimento operaio si sono sempre chiamati gli uni gli altri e spiegava che questo termine è molto bello perché deriva dal latino cum-panis, cioè condividere il pane. Spiegava inoltre che per il cristiano il pane non è solo quello di farina bianca, ma anche quello eucaristico: quello che non solo unisce gli uomini su un bisogno materiale (“proletari di tutto il mondo unitevi”) ma li affratella nella comunione totale di origine e di destino.

E pensare che si tratta di pochi materassi. Però nuovi.