End of life option act. È questo il nome della legge con la quale la California ha regolarizzato il suicidio assistito. Ed è Jerry Brown il nome del governatore, democratico, cattolico ed ex seminarista, che ha firmato quella legge. Lo ha fatto dopo giorni e giorni di silenzio, in profondo dialogo con la propria coscienza e con diversi amici, medici, sacerdoti, collaboratori. Ha spiegato di ritenere il suicidio assistito un’opzione sensata per persone che si trovano in condizioni disperate e difficili nel proprio cammino umano, lo ha fatto nel contesto della società americana che, per quanto ci si sforzi, sarà sempre difficile da comprendere per un europeo. Terra dell’individualismo sfrenato di matrice protestante, gli Stati Uniti non riescono a comprendere il valore sociale dei fenomeni comunitari e adottano da tempo un concetto di laicità sia teista — dove negare Dio è una mancanza di rispetto — sia esclusivista, dove coinvolgere la presenza di Dio nel giudizio della ragione appare ossimoricamente irrazionale.



Eppure da quella terra provengono quotidianamente nuove sfide, nuove domande, nuove provocazioni su che cosa significhi essere cristiani nella società contemporanea, una società dove tutto crolla e dove le leggi laiciste, salvo una resistenza sempre più debole, sembrano destinate a dilagare e a dominare. La risposta a questo quesito non può che giungere dalla realtà, dai fatti, e la cosa più reale che c’è nel mondo è proprio la storia del Mistero Incarnato, la Sua vita che continua in mezzo agli uomini. Guardare a Cristo, al suo modo di “stare-nel-mondo” non risolve la sfida quotidiana della libertà, ma offre a tutti una strada autentica di immedesimazione e di umiltà.



1. Anzitutto bisogna dire che ciò che teneva in piedi Gesù era il rapporto con il Padre. L’identità di Cristo era totalmente determinata da questo affetto, da questa appartenenza, che poneva quel legame come superiore ad ogni altro, ad ogni circostanza o fatto storico in cui la Sua vita di uomo era immersa. Gesù aveva un tesoro, Gesù ha un tesoro. Ed è questo che lo rende sempre davvero uomo: il fatto di poggiare su una certezza affettiva che è al di là dei fattori storici e che rende liberi dal fascino del potere, del piacere e del compiacimento. Gesù non si preoccupa — dice san Paolo — di piacere a se stesso, ma di essere obbediente fino alla morte, e alla morte di croce.



2. In quest’orizzonte la Croce, per Cristo, ha sempre implicato due elementi: il rispetto supremo della libertà dell’altro e l’affermazione altrettanto suprema della Sua identità. La Croce è sorta nella storia proprio a causa di questi due fattori. Non lo avrebbero messo in Croce se avesse voluto violare la libertà di Pilato, non lo avrebbero messo in Croce se avesse voluto cedere al progetto lusinghiero di Giuda. La realtà e il cuore, ossia il rapporto originario col Padre, erano le sue due grandi bussole, i suoi due grandi alleati. Di fronte a tutto. 

3. I primi cristiani tradussero quest’esperienza imponente in un giudizio molto semplice: il rispetto per le istituzioni romane e il senso del loro confine. Un esempio di tutto ciò giunge dalla Chiesa precostantiniana: Clemente Romano chiede con forza di pregare per l’Imperatore e per lo Stato, non si mette in opposizione ad essi, ma Tertulliano — ben prima del suo periodo “rigorista” e “montanista” — non ha dubbi nell’invitare i suoi fratelli a dire “no” a tutto quello che lo Stato chiedeva di “pagano”, ad esempio, a coloro che partecipavano all’esercito. Il confine che i cristiani posero allo Stato si attestò quindi lungo la linea dell’idolatria: lo Stato è libero, può fare quello che crede nella suo potere legislativo, ma non può costringere un uomo ad adorare un Dio che non sia il suo. Nella libertà religiosa, insomma, essi trovarono il fondamento di ogni obiezione di coscienza che non implicava “cristianizzazione delle strutture”, ma testimonianza pubblica, evidente, di un altro affetto, di un’altra consistenza, di un altro Dio.

L’obiezione di coscienza nasce proprio dal rifiuto dei cristiani verso ogni idolatria. I cristiani non si sono mai rifiutati di pagare le tasse, di partecipare alla vita sociale, militare e politica dell’Impero, ma non hanno mai adorato altri dei, né aderito a pratiche ambigue, equivoche, di compromesso. Oggi il potere, come l’impulso e il consenso, sono vere e proprie divinità che tentano di invadere la coscienza degli uomini chiedendo a loro precisi atti di ossequio e di fedeltà.

Jerry Brown, proprio per questo, doveva fermarsi. Anche se ciò gli fosse costato il potere, anche se ciò gli fosse costato il carcere, egli non doveva firmare. Poteva non farlo e non doveva. Esattamente come ciascuno può fermarsi davanti ad una carriera promettente, davanti ad un nuovo amore foriero di emozioni dopo una vita matrimoniale triste e annoiata e davanti alla tentazione di cercare e ricevere gli applausi del mondo intero se tutto questo comporta cedere all’idolatria, allontanare il cuore dal cuore di Dio. Ci sono momenti in cui viene fuori ciò che ciascuno ha di più caro e la realtà obbliga a scegliere. Jerry Brown non aveva il compito di rendere la California uno stato confessionale, ma aveva il compito — anche silenzioso come i martiri di Tibhirine — di salire sulla Croce, fino in fondo, fino a dire “Christianus sum”. E invece, per paradosso — come succede a tutti quelli che hanno paura di morire moralmente ai loro idoli — ha permesso fisicamente la morte degli altri, la morte degli innocenti.

Perché, sovente, è proprio questo il prezzo che si paga quando quotidianamente si rinuncia a morire: la morte di coloro che ci illudiamo di salvare. E questo accade molto più frequentemente di quanto i giornali e i notiziari osino raccontarci.