Mio cugino Andrea è morto in un’afosa giornata d’estate. Caldo, solitudine, in quello spiazzo arido di periferia. Sì, quella parola che piace al Papa, e che già si è trasformata in uno slogan, da appuntarsi e tirar fuori per fare bella figura, e sentirsi in linea. Però, le periferie continuano ad essere lì, perdute e vuote di umanità e calore. Andrea aveva scelto di viverci, in un bell’alloggio che si affacciava sui giardinetti. Una chiesa, un bar, qualche panchina, i nonni coi nipotini e le macchinine. La vita, da guardare, da cui sentirsi abbracciato. Gli bastava poco, a lui, che era matto, proprio fuori di testa, dicevano. Naturalmente era malato, non matto, e di una malattia psichica così difficile da definire, da classificare. Schizofrenia. Cervello separato. Da che? Ci sono schizofrenici violenti. Andrea non era violento. Si è ammalato da ragazzo, i primi segnali quando faceva il servizio militare. Chissà cos’è successo, per scatenare il buio, cos’ha visto. Nessuno ha fatto nulla, nessuno se n’è occupato, anche se c’è sempre, dice la letteratura medica, una causa che separa, taglia, disconnette. Curioso: diavolo, diabàllon, significa separare. E invece Andrea era rimasto buono, in una famiglia buona, semplice, provata dalla sofferenza, la morte prematura della mamma. Ma amava le montagne, ci camminava volentieri, amava il suo calcio, la sua squadra del cuore, amava davvero alla pazzia i suoi nipoti, con cui amava giocare, lo zio sacerdote, che aiutava in parrocchia.



Sempre più grande, sempre più bambino, sempre più solo, perché non è facile stare con uno così, i pregiudizi, la paura, e che gli dico, tanto non capisce. Andrea invece capiva il bene, e gli bastava cercarselo, in qualche gesto d’affetto, nella compagnia appassionata, allo stremo, del padre, sempre più anziano, sempre più stanco. Sempre più imbambolato dai farmaci, che non voleva, perché capiva benissimo di non essere più lui. Sempre più grosso e grasso, perché quei farmaci si sa, gonfiano, ti rendono flaccido e grosso. Un gigante, appunto. Che non faceva paura, faceva pena, stringeva il cuore, e poneva domande. 



Come si seguono, malati così? Una volta, neppure tanti anni fa, venivano segregati in gironi infernali in terra. Oggi, siamo segregati dal mondo, e abbandonati, alle cure dei familiari, se ci sono e se possono. Lo Stato ha risolto il problema, finge che siano malati normali, i matti. Una diagnosi senza speranza, l’indirizzo di qualche comunità, se c’è posto e ci vuoi andare. Come se la libertà non fosse, per tutti, da guidare, seguire, verso la strada del bene, che non è uguale per tutti, che va declinata alla situazione di ogni persona. Ma questi malati non possiamo far finta che possano cavarsela da soli, con un’iniezione al mese. Andrea non voleva farle, quelle terapie, e toccava al papà chiamare i medici, insistere, pregare. 



Quel giorno d’estate, il 5 di agosto, qualcuno l’ha ascoltato, dopo mesi di colpevole silenzio. Forse s’era fatto un posto, forse non ne potevano più delle insistenze. Ma non così, non andando a prendersi il paziente coi poliziotti, non gettandolo a terra, lui, inchiodato alla panchina, che urlava, muggiva, non voleva andar via, non con quel dottore che conosceva solo perché lo chiudeva in una stanza d’ospedale, con le sbarre, dove lo intontivano e poi lo rifacevano uscire, “calmo”, ma peggio di prima. Si chiama Tso, Trattamento Sanitario Obbligatorio. Sembra un fermo di polizia, non una necessità per proteggere, sostenere il paziente. Bisogna convincere, provare con la fiducia, la dolcezza. Con Andrea poi, è stato sbagliato tutto: sì, era grosso, ma non aveva mai fatto del male. Lo dicono i biglietti e i disegni dei bambini che sbiadiscono, affissi con pietà a quella panchina che era il suo sguardo sul mondo. Non era un criminale, ed è stato trattato come non dev’essere trattato il peggior criminale. Si è cercato in ogni modo di nascondere la verità, che ai parenti, nel triste riconoscimento all’obitorio, è apparsa subito evidente. Strangolamento, è morto strangolato, da una manovra irrituale e illegale, che forse il poliziotto aveva imparato in palestra e visto in qualche film di marines. Aveva i segni blu sul collo, non respirava più, e in pochi attimi ha smesso anche di urlare.

E così, moribondo, l’hanno ammanettato e gettato a pancia in giù sull’ambulanza, da solo, con un giovane volontario sgomento che si confidava con l’operatore telefonico dell’ospedale: il mondo è dei prepotenti, diceva. O forse è ancora peggio, è in mano ai distratti, agli indifferenti, ai sempre meno uomini. Così, dopo tre mesi e più, Andrea, si viene a sapere che è vero, sei stato ucciso, e qualcuno provi anche solo a pensarlo, che tanto una vita così era disperata, e valeva poco. Leggetevi Spoon River, “Un matto”. In quest’estate di san Martino, Andrea, anche il tuo giardinetto si colora d’autunno, l’aria è frizzante e non ci sono pesi sul cuore. Il sole splende, la vita che ci è donata è bella.