Elena è sempre stata bella e bohémienne, già quand’era al liceo. Poi ha scelto Parigi, gli studi, l’amore, e i suoi lunghi capelli, le giacche sfrangiate, i lunghi orecchini sembravano disegnare alla perfezione il modello di parisienne bobo che abbiamo in mente. Bourgeoise e bohémienne, in un senso nobile, non quello snob radical chic che ha annoiato. Insomma, arte, amore, fantasia, cultura, originalità non ostentata, un’indomabile voglia di libertà.
Perché vi parlo di lei? Per far capire chi può essere un citoyen tipo di quel quartiere squarciato ieri notte dalla furia assassina dei terroristi. Elena lavora a teatro, non a caso, in una zona di teatri e quindi di locali aperti fino a tardi, dove si beve, si chiacchiera, si suona. E’ il cuore di Parigi. Per questo la ferita alla città pare mortale. Certo, avremmo da ridire su questa Francia che esalta la liberté e l’égalité, dimenticando la fraternité. E poiché si tratta di una virtù cristiana, dimenticando le sue radici, testa di fila di un’Europa che si ritiene più vera e moderna considerando libertà e diritto il soddisfacimento di quel che il desiderio istintivo suggerisce, tralasciando che ci sono anche dei doveri, un’identità e che perderla non rende migliori né più felici.
Sembra una nemesi, la patria della laicità travagliata da una guerra di religione. Così si intralegge in molti interventi di illustri intellettuali che oggi scrivono je suis français. Solo che è una sporca guerra di soldi e azioni, spesso improvvide, dove la religione al solito copre e, stravolta, scatena le menti folli. E la laicità è a senso unico, ovvero relativismo e libertà totale per tutte le chiese e le sette, salvo che per quella che ha messo radici con Saint-Denis, proprio nell’Ile de France, quasi duemila anni fa.
Ma torniamo a Elena, che se ne va sicura, indipendente, come ogni sera tornando dal teatro in cui lavora, prende la metro, e scende alla fermata Bastille. Il Bataclan è a due passi, casa sua a 50 metri. In quei 50 metri è risucchiata dal buio. Sirene di ambulanze, polizia, la folla che trascina, e quella donna col chador, così giovane, che concitata al telefonino urla: ditemi, ditemi cosa devo fare, dove devo andare, datemi delle istruzioni! Elena sta per chiederle se ha bisogno di qualcosa. E’ un attimo, la placcano i militari, la circonda la Garde, il cellulare a terra, viene portata via. Una basista, probabilmente. Così Elena viene scortata a casa, assicurandosi che entri e chiuda il portone alle sue spalle, mentre si intensificano le urla e le sirene. E capisce, Elena, che le serate con gli amici dopo teatro per tanto tempo non torneranno più, che non potrà più guardare una persona per strada, all’uscita della metro, senza sospetto, senza paura, senza l’idea che le sia nemica.
Elena era scesa in piazza, con i quattro milioni che al grido “Je suis Charlie” hanno rimarcato la loro dignità, il loro orgoglio. Elena era a Tunisi, vicino al Bardo che veniva insanguinato. Ha sempre reagito. Ma questa volta, come i suoi amici, ha paura. Di questa città silente e irreale, con i bar del centro vuoti, chiusa la sua palestra, i cinema, i teatri. Di questa città dove la gente fa scorte al supermercato, ed esce di casa guardinga, scrutando alle spalle. Elena prega tutti di non andarci proprio, a Parigi. Come se fosse la sola città presa di mira, come se bastasse a tutelare chi vive a Londra, ad Amsterdam o a Roma. Come se la guerra che non vogliamo pronunciare non fosse diffusa, nascosta, imprevedibile, pronta a corrompere gli animi, togliere la speranza.