C’è il cuore e la ragione nelle parole del Papa all’Angelus di ieri in Piazza San Pietro davanti alla strage di venerdì sera a Parigi, “inqualificabile affronto alla dignità della persona umana” del terrorismo dell’Isis nel cuore dell’Europa laica e cristiana (“la cara Nazione francese”). Una strage che è un pezzo, che segna un salto di qualità per il rilievo organizzativo e propagandistico dell’azione terroristica condotta, di quella “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” di cui da tempo parla Francesco.
C’è il cuore che non accetta di essere incenerito dalla barbarie, e si chiede sgomento “come possa il cuore dell’uomo ideare e realizzare eventi così orribili”. Quasi non accettando l’evidenza della ragione, del Caino che può albergare nel cuore di ogni uomo, perché il cuore dell’uomo lo misura dal proprio, dal cuore di Abele. E guardando a Cristo che “oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta”, rimette “la sua causa a colui che giudica con giustizia” (I Pt 2,23), come ieri ha ricordato Julián Carrón. Non invocando vendetta, ma riaffermando “con vigore che la strada della violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità”.
Questo è il mestiere del cuore, quando è un cuore umano: il suo “ministero, ufficio, servizio”, questo è l’etimo di mestiere. Ma poi c’è anche il mestiere della ragione, l’ufficio e la necessità di capire, ed anche questo ha esercitato il Papa: “utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada [della violenza e dell’odio] è una bestemmia”.
Nella stringata nettezza di quest’affermazione, c’è un invito ad esercitare la ragione nel giudicare il dissennato ricorso del terrorismo islamico al nome di Dio per giustificare la pura e semplice nefandezza della violenza omicida, usata spietatamente anche a fini propagandistici della “potenza” del califfato islamico nelle sue pretese di rifondazione. A non cadere nella trappola ideologica della “guerra di civiltà” cui vorrebbe sospingerci il sequestro del nome di Dio della violenza fondamentalista.
Perché questo sequestro è un oltraggio all’unico senso del Dio del monoteismo, al “monoteismo della fratellanza”: l’unica umanità di tutti custodita dall’unico Dio. Perché o il Dio del monoteismo è questo — come che poi si chiami — o è meglio non crederci, che non ci sia per noi uomini. Che a scannarci bastiamo già da soli, non abbiamo bisogno di vestirci delle sue bandiere.
C’è nelle rivendicazioni del terrorismo islamico un uso tutto politico, geopolitico, del richiamo all’islam — questo c’è nel monito del Papa — che va denunciato e combattuto con ogni mezzo, innanzi tutto culturale, per rendere più difficile all’Isis e al fondamentalismo islamico in genere la sua propaganda e il suo proselitismo. Ma di questo compito culturale — che per dirla con semplicità, come ha fatto Claudio Magris, significa instillare “la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno” —, ci si deve fare carico tutti, a cominciare dall’islam predicato alle masse nei paesi islamici e nelle nostre moschee.
All’Europa e all’Occidente magari tocca anche di saper comunicare meglio ai loro cittadini islamici (a quanto si sa, gli attentatori di Parigi sono cittadini europei “integrati”) la comune speranza dei valori dell’uomo che tutti nel mondo globale siamo chiamati a condividere, che la vita vale sempre la pena, e che nessun dio ne può chiedere l’olocausto.
Ma c’è un problema nella cultura islamica di massa per com’è tenuta anche bloccata in una sua evoluzione all’altezza del suo patrimonio morale e religioso da regimi che della sua arretratezza fanno strumento del proprio potere, e non di quello di Allah, “il solo vincitore” dei versetti sulle pareti dell’Alhambra a Granada. Sono maturi i tempi, perché sono necessari, che quella vittoria sia intesa come vittoria della bontà divina, di Allah misericordioso. È una banale ma basica necessità, in altri termini, che la “modernità” che ha affrancato l’Occidente cristiano, se non dalla violenza e dall’odio, almeno dallo spergiuro di Dio, che uccide in suo nome, raggiunga anche l’islam; e questa dev’essere una sollecitazione culturale ed educativa che ai paesi islamici, e all’islam in generale, può e deve essere posta, al di là dei “piani alti” del dialogo interreligioso delle fedi. Una sollecitazione culturale ed educativa, che non può essere tenuta fuori dal dialogo “politico” a livello internazionale con i paesi islamici e con le associazioni islamiche a livello nazionale, per asciugare l’acqua in cui il terrorismo pesca i suoi proseliti.
Poi l’analisi razionale sui fatti di Parigi dice che c’è necessità di una complessiva riconsiderazione dell’approccio geopolitico dell’Occidente e dei paesi, anche islamici, interessati a sconfiggere il terrorismo dell’Isis, ponendo fine ad interessi ed egoismi che fanno o persino utilizzano il suo gioco, ma questa ovviamente non è materia dell’Angelus, ma delle cancellerie internazionali.