Ieri, un breve trafiletto sulle colonne de ilsussidiario.net riportava la notizia di una giovane donna incinta, che, dopo aver scoperto di essere affetta da cancro, decide di portare a termine la gravidanza nonostante il consiglio dei medici di abortire per dedicarsi esclusivamente alla cura del suo male. “Non ho potuto pensare di abortire mentre sentivo dentro di me i calci del bambino”, così ha dichiarato la donna al giornale inglese Daily Mail.
Qualche giorno prima, il 13 novembre 2015, in un venerdì qualunque, sei terroristi islamici sconvolgevano Parigi e il mondo intero uccidendo con violenza inaudita 129 persone e ferendone altri 195. Degli otto attentatori, uno è in fuga per l’Europa, due sono morti e non ancora identificati e ben cinque si sono fatti esplodere. Ai cinque kamikaze c’è da aggiungere il suicidio di Abdelhamid Abaaoud, la mente degli attentati, che si è fatto esplodere durante il blitz della polizia a St. Denis.
Nel mare magnum di notizie, interpretazioni e analisi sulla strage, la coraggiosa decisione della donna sembra scomparire, più che ad una notizia assomiglia ad un lumicino destinato ad essere inghiottito dalla notte, è una flebile voce sovrastata dal chiasso delle dichiarazioni di politici, pseudo-intellettuali, esperti che sentono l’insopprimibile bisogno di riempire il grande silenzio che ci lasciano le bombe parigine. I grandi interrogativi che ci consegnano le immagini dei 90 corpi lasciati nel parterre del Bataclan in un lago di sangue.
Eppure in questo frastuono rissoso e scomposto si fa largo, tra le righe, questa notizia minima, scarto del tritacarne dei media di questi giorni, una notizia che non fa nulla per attirare gli sguardi che passano oziosi sulla home di Facebook. Una notizia così minima eppure così luminosa, tanto potente quanto la decisione di quella donna di mettere a repentaglio la propria vita per dedicarla totalmente alla creatura che portava in grembo.
Una notizia che a noi, assuefatti al clamore del male, non colpisce immediatamente, ma si insinua e sedimenta, acquista profondità e col tempo attecchisce, sopratutto quando ci si rende conto che la mamma ha la stessa età – o giù di lì – degli attentatori suicidi di Parigi: 25 anni.
Allora ci si accorge che in realtà la notizia è potente quanto gli scoppi nella capitale francese, perché ci conferma, dopo i tragici eventi del weekend, che a venticinque anni esiste qualcosa per cui vale la pena dare la vita. La notizia di questa donna è così potente che contiene in sé l’ardire di proporsi come la risposta più adeguata al “suicidio per uccidere” dei giovani jihadisti della strage del 13 Novembre. In entrambi i casi, i fatti nudi e crudi, spogli di qualsiasi altra implicazione, ci raccontano di uomini e donne che nel culmine della loro gioventù, nel momento più bello e rigoglioso che la natura concede, decidono di sacrificare tutto di sé per un ideale.
Offrono tutto di sé – la propria pelle, le proprie speranze, i propri progetti – per la realizzazione di un ideale più grande. Un ideale per cui la propria vita è nata e nella quale finalmente si realizza. I terroristi, come quella povera donna assalita dal cancro, ci ricordano che non c’è vita senza significato per cui sacrificarla, senza un motivo che la rende sacra.
Ma gli stessi fatti ci dicono anche che la libertà può scegliere – e sceglie istante per istante – per cosa sacrificare tutto: si può dare se stessi per la vita o si può dare se stessi per la morte. Si può decidere di morire per far essere l’altro, o, invece, di morire perché l’altro non sia. Non esista mai più.
Due abissi, due mondi distanti anni luce: da una parte lo stupore e la gioia della nascita e dall’altra il dolore della morte, del nulla. Eppure questi mondi sono intimamente impastati dentro la vita di ciascuno di noi, ci appartengono entrambi, sono le possibilità che vivono dentro ogni nostro atto, anche il più banale: si può lavorare offrendo il proprio tempo alla costruzione di qualcosa di più grande di sé o per alimentare il proprio ego pensando ingenuamente di riuscire ad appagarlo; si può amare di un amore gratuito e totalmente disinteressato o con la pretesa di ricevere qualcosa in cambio all’altezza del proprio dono. E tra le due alternative è impossibile sbagliarsi su ciò che in fondo desideriamo, su questo non si può barare.
Ma in un mondo in cui sembra vincere l’annientamento dell’altro come unica possibilità dell’io di essere; il gesto semplice e grande di questa donna ci ricorda che c’è ancora qualcuno per cui il dono di sé all’altro è ciò che può davvero compiere la vita. Ma come ha potuto quella donna così giovane rinunciare alla sua vita, perdere la sua possibilità, rinunciare ai suoi affetti? Come ha potuto, devastata dal dolore per la malattia, non giocare in difesa e decidere di proteggere quel seme ancora informe che portava in seno? Come si può, oggi, mantenere vivo questo struggimento e amore per l’altro e non avvertire l’altro da sè come una minaccia alla mia possibilità di esistere? Come si può trasformare il mondo in un luogo in cui poter vivere insieme, se tutte le più brillanti e argute strategie di integrazione hanno fallito, se le migliori politiche estere ed interne sembrano sgretolarsi come le vetrine di quel bistrot a Parigi sotto i colpi dei kalashnikov? Come si può rimanere uomini se l’unica soluzione sembra essere la difesa del mio e l’annientamento del tuo?
La risposta a queste domande è interamente contenuta nelle poche parole della mamma al giornale: “Non ho potuto pensare di abortire mentre sentivo dentro di me i calci del bambino”. Sentivo dentro di me. E’ tutto dentro il verbo “sentire” quel punto indistruttibile da cui parte la riscossa, quello scoglio che permette di non abiurare definitivamente alla parte più profonda e autentica di sé. Fin quando il nostro cuore e la nostra carne sono capaci di sentire la ferita che brucia, la ferita del proprio male e di quello altrui, fin quando il nostro cuore è ancora capace di avvertire la propria impotenza ad amare e lasciarsi amare, fino a quando può sentire la violenza della propria insufficienza allora non potrà evitare di aprirsi all’altro, allo sconosciuto. Per necessità, non per eroico moralismo. Invece, fino a quando continueremo a sentirci a posto, intatti; fino a quando continueremo a evitare lo sconcerto di non sapere, di non farcela, l’altro resterà sempre una minaccia, che, al massimo, in un lodevole sforzo della nostra volontà, potremo provare ad integrare. Cioè, potremo provare a renderlo uguale a noi. Senza riuscirci.
Per questo in questa Europa scassata, violentata, confusa ed impaurita, più che di una dottrina o di un nuovo ordine militare che ristabilisca l’ordine si sente l’estremo bisogno di un’educazione che aiuti ciascuno di noi a “sentirsi” integralmente, ad “avvertire” la propria mancanza e l’urgenza dell’altro per vivere. Solo con questo cuore grondante, proprio come quella mamma, si può davvero riconoscere che vivere e morire per la vita è più grande e più vero che vivere e morire per la morte.