Non si può parlare davanti al cadavere di una bimba di quattro anni, con la maglietta rossa e i pantaloni blu. L’hanno raccolta sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Si chiamava Sena. “Cessate d’uccidere i morti,/non gridate più, non gridate/se li volete ancora udire,/se sperate di non perire”, scriveva, tanti anni fa, Giuseppe Ungaretti. “Esiste un gesto antico di pietà, che è quello di coprire il corpo di chi è morto in un luogo pubblico – ha scritto più recentemente Mario Calabresi (non conoscevo questo testo, l’ho trovato riproposto da un giornalino di studenti in un commento ai fatti di Parigi, li ringrazio di cuore, c’è ancora speranza se qualcuno tira su ragazzi così) —. Lo si fa con un lenzuolo bianco, una coperta, un qualunque indumento che protegga almeno il volto e il busto di chi ha perso la vita rimanendo esposto su un marciapiede, in mezzo alla strada, su una spiaggia o in un campo. […] È il limite del pudore, del rispetto, è il simbolo della compassione e della capacità di fermarsi”.
Qualche mese fa, le foto di Aylan, un bimbo di tre anni trovato morto sulla medesima spiaggia, hanno fatto il giro del web. L’immagine del corpicino è stata ritagliata e messa sullo sfondo del parlamento europeo, della sala riunioni dell’Onu, su una cartina geografica. Hanno detto che era per scuotere le coscienze. Siamo nel 2015, il mondo in cui viviamo è questo. Non giudico nessuno, credo di capire la rabbia di fronte al dolore innocente, da sempre lo scandalo più atroce per tutti noi umani. Settimana scorsa, dalle mie parti è morta una ragazzina di quattordici anni. Il padre la accompagnava alla fermata del bus per andare a scuola, è scesa dalla macchina, l’autobus stava arrivando, ha attraversato di corsa la strada, non ha visto l’auto che sopraggiungeva. Durante le ore terribili in cui è rimasta attaccata al respiratore, in attesa del via libera per l’espianto degli organi — i genitori hanno optato per la donazione — la mamma a un certo punto ha detto più o meno: «Mi sto rendendo conto che Dio ce l’aveva affidata, ma era sua. Adesso la sta riprendendo, per sempre».
Lo so, si potrebbe obiettare che è diverso, qui è stata una fatalità, a Bodrun la cattiveria degli uomini. Però a me pare che la questione, al fondo, sia la stessa. Cioè se siamo noi i padroni della vita, della realtà, se il problema sia aggiustare il mondo secondo i nostri progetti; oppure la vita, la realtà, siano un mistero più grande di noi, da cui noi dipendiamo.
Certo, è giusto che ci diamo da fare per rendere il mondo un luogo un po’ più umano, un po’ più ospitale, ci mancherebbe; ma il cuore degli uomini è sempre quello (“carnali come sempre, bestiali, egoisti come sempre”, direbbe Eliot), se anche facciamo fuori l’Isis — e non dico che a un certo punto non si debbano imbracciare le armi per farlo — la cattiveria umana salterà fuori da un’altra parte. Allora, davanti alle foto del corpicino di Sena, io sto con la mamma di Chiara, con Ungaretti, con Calabresi: un momento di silenzio, un attimo di pietà, un istante per riconoscere che “io sono” equivale a “io sono fatto”. “Non gridate più/se sperate di non perire”.