BANGUI — L’immagine più potente sarà l’unica con cui si potrà sintetizzare questo Giubileo della Misericordia che la Chiesa e il mondo si apprestano a celebrare. Il Papa che si appoggia alla semplice porta di legno rossiccio con tutto il peso del suo dolore e la spalanca, per rimanere poi solo, in accecante controluce, sagoma ingombrante e inerme, eppure potentissima nella sua fisica simbolicità. Una presenza che ha riempito gli schermi del mondo, ma prima e soprattutto un intero paese, il Centrafrica, violentato da anni di guerre bastarde e violenza. Svuotato di speranza e pace. Poi quella camminata quasi stentata, lenta e solenne, nella piccola navata della Cattedrale di Bangui, sottolineata dallo stridulo canto di gioia africano, tra due ali di schiene femminili, donne, piegate fino a toccare con la fronte il pavimento, nei loro vestiti sgargianti, con il faccione di Bergoglio stampato addosso.
Così Francesco apre un Giubileo. Così il Papa impone al mondo la sua logica, che è la logica del Vangelo e di Cristo. Una logica d’amore. L’ha quasi gridato nella cattedrale, il pellegrino della pace e della speranza. L’ha urlato al mondo, da condottiero, a testa alta, chiamando a raccolta i cristiani di una terra che vede scorrere il sangue di tanti martiri dell’odio, ma anche quelli spesso indifferenti e tiepidi del resto del pianeta. Un soldato, sembrava, pronto a resistere nella decisiva battaglia, certo che alla fine l’ultima parola sarà di Dio. Una parola di amore. E di pace. E’ li che i 500 presenti nella chiesa dell’Immacolata Concezione sono esplosi, buttando fuori tutto quello che avevano nelle viscere e nel cuore: un misto di ansia, paura, rabbia, frustrazione e desiderio. Loro, gli sconfitti della Storia, le vittime sacrificali di un conflitto ingiusto e ingiustificabile, saranno vincitori. E in un certo senso, accanto alle altre centinaia di migliaia di centroafricani che ieri sono scesi per le strade, sfidando i miliziani della morte, i vari Seleka e Antibalaka, e il coprifuoco, insomma questo popolo di uomini e donne che brama la pace, ha già vinto.
Papa Francesco, contro tutti e tutto, era tra loro, sul sagrato di una cattedrale rossa come la terra polverosa di questa porzione di Africa, a dichiarare Bangui, la devastata, sanguinosa e lacerta Bangui, “capitale spirituale del mondo”. Il Giubileo di Francesco non poteva che iniziare qui, nel buco nero del mondo, “in una terra che soffre da anni per l’odio, l’incomprensione, la mancanza di pace”. Lo ha detto prima di compiere un gesto che era previsto altrove, nella solennità romana, dentro la lussuosa tradizione della cattolicità, nella sontuosità sacra della Basilica Vaticana, tra flash, incenso, paramenti sacri e ricchezza di presenze e che ieri ha avuto il suo anticipo vero tra la polvere e il sudore di un pomeriggio africano, nell’unico posto dove avrebbe avuto più senso parlare di preghiera e misericordia, riconciliazione e perdono.
A Bangui, diventata “capitale spirituale” per volere di Francesco, c’erano anche le mille altre città perse nell’odio e attraversate dalla sofferenza, tutti i paesi bisognosi di pace, amore e perdono. A Bangui c’era il mondo. E ce lo ha portato Francesco. Prima delle sue parole, del suo appello rivolto a tutti quelli che usano ingiustamente le armi a deporre gli “strumenti di morte”, del suo invito, nella terra dove le strade sono presidiate dai caschi blu con i mitra in mano, e i quartieri squartati dalla follia fratricida, ad armarsi “della giustizia, dell’amore e della misericordia”, c’era stato il suo arrivo, insperato. Solo per far comprendere quanto poco fosse scontato il viaggio nella Repubblica Centroafricana, la conferma è arrivata solo alla vigilia della partenza dall’Uganda, dopo una ridda di forse, se, ma, smentite e rassicurazioni, illazioni su chi e come avrebbe garantito la sicurezza del pontefice tanto pazzo da finire il suo primo viaggio africano nel bel mezzo di un macello di miliziani e bande criminali, sobillate e manovrate dall’esterno per depredare il cuore generoso e ricco dell’Africa.
Al suo arrivo, all’aeroporto di Bangui, la tensione era palpabile, a proteggere Francesco c’erano le forze della Minusca, le forze integrate di stabilizzazione della Missione in Centrafrica, caschi blu provenienti da altri paesi africani, in particolare militari rwandesi. Faceva un certo effetto vedere i gendarmi vaticani con i giubbotti antiproiettile, dare istruzioni a ufficiali di diverse lingue, e poi il convoglio scortato da carri armati e camionette cariche di soldati, lungo l’arteria rossa che porta fino al centro della città, nel palazzo ammaccato della presidente del governo transitorio del paese, una donna che divide con il nunzio Franco Coppola e l’arcivescovo di Bangui, mons. Dieudonné Nzapalainga, il merito di questo viaggio improbabile.
E’ stata proprio lei, una mamma di tre figli, cattolica, a parlare a nome del popolo che acclamava festoso tra le baracche e il cordone di scout addestrato alla difesa dell’ospite. Lei a parlare per prima del viaggio del Papa come di una vittoria della fede sulla paura, del coraggio sull’incredulità, in un contesto in cui rinunciare sarebbe stato comprensibilissimo e per nulla disdicevole. Lei a chiedere l’unica cosa che la Repubblica Centrafricana, quella dei bambini e delle donne che abbiamo visto nelle strade, nelle parrocchie o nei campi profughi desiderano, una benedizione del Papa dei poveri e dei martiri. Una benedizione per un paese che vuole ricostruirsi e ricominciare a vivere, e che ha un’occasione subito, tra poche settimane, nelle prossime elezioni che si spera siano libere e trasparenti. Una carezza per lenire le ferite di molti anni bui, la forza per trovare la via del perdono reciproco e resistere alla tentazione dell’odio. E Francesco ha fatto tutto ciò che poteva e doveva per testimoniare che il Dio della Misericordia è un Dio che può tutto. E’ arrivato in Centrafrica, mostrando che la potenza dell’amore non arretra di fronte a nulla.