Quante volte mi sono sentito chiedere, magari dopo un incontro di quelli finiti con la maglietta madida di sudore: “Ma tutte queste storie che racconti, don Marco, te le inventi? Hai un sacco di fantasia”. Storie che parlano di uomini, di donne, di bambini. Di sorrisi, di ferite, di lacrime. Storie che sanno di pane, tozzi di carne salata, briciole d’umano che sa di gusto. Ogni volta sempre la stessa risposta, da un paio d’anni a questa parte: “Non invento nulla, non ne ho bisogno. Vivo dentro un miscuglio di storie”. Sono fortunato, lo so: da quando frequento i bassifondi dell’umanità, m’accorgo d’avere la residenza all’interno di un bacino idrico di storie: storie da novanta, vissute a trecento all’ora, storie andate fuori-strada. Mi basta raccoglierle, carezzarle, darci un tocco di lima con lo sguardo, un colpo di pialla col cuore, ed eccole: bellissime, perché vere, slabbrate, rincitrullite ancorché saporose. Ogni giorno: dal carcere al cielo, dal cielo al carcere. In mezzo tutto il resto che sa di umano.
“Odora di Cristo”, mi dico spesso quando m’imbatto in qualcosa d’intricato. E mi sento perfettamente a mio agio nelle vesti di un postino: prendo una storia nell’inferno, me la metto in tasca e poi, la sera, la depongo nella memoria di qualcuno che incontro. Certamente: un postino di belle notizie, anche quando la bellezza se ne sta nascosta sotto un mucchio di sterpaglie, d’erbaccia. Allora sì che serve fantasia, anzi no: serve quell’amorosa passione che fece di un gabelliere come Levi uno stinco di santo di nome Matteo. Ai tempi di Cristo capitava questo, ai tempi miei: “Voglio proprio vedere come fai a toglierti da quest’imbarazzo, Cristo”. Se la cava alla grande, quasi sempre sul filo del rasoio. In pieno tempo di recupero.
Maturano anche le nespole, signora. Lo disse il “prof” di greco a mia madre, sconsolata per quel sette in condotta ch’è rimasto il mio marchio di fabbrica: quello vero, autentico, scevro da qualsiasi ritocco. Sono maturate per davvero le nespole. Me lo sento addosso, lo vedo riflesso allo specchio la sera: “Come sei cambiato, non ti riconosco più, Marco”, quasi mi dico con stizza. Col sorriso, tu, dentro una galera? Io, figlio di un Nord-Est splendido e recintato. Proprio io, uno di quelli “ficcateli in galera e gettate la chiave”: per più di un lustro, per intere chiamate alle urne, a dar fiducia a quelli che adesso sono di Matteo Salvini, e prima ancora di altri.
A quale sole sono maturate queste nespole sempre-verdi? Nessun dubbio: al sole dell’incontro, dell’incontrarsi, dell’incontrarmi con me stesso. Un giorno il bambino intelligentissimo che sono sempre stato ha scoperto d’aver fondato il suo giudizio sulla letteratura-del-carcere, mica s’era degnato, principino qual era, d’azzardarsi d’incontrare il carcerato.
Quando successe fu un patatrac. Scoprii che ciò che tengo in odio – l’essere giudicato senza avermi incontrato – l’avevo reso io stesso ad altri, ai lupi della società: i bastardi, i cattivi, i delinquenti. Giudicati, scansando l’incontro con la vera-presenza di loro, delle loro storie, dei drammi cuciti addosso. D’allora, tutto come allora, con il medesimo terrore addosso: non dei lupi, ma d’aver sbagliato traiettoria. Incontratili per sbaglio – quegli sbagli che sanno sempre più d’agguati e d’imboscate personalizzate – non li ho più mollati. Alla loro scuola – che non è alla scuola dei loro reati – m’appassiona troppo la mia umanità che si va lavorando.
Quant’è stato sanante sentirmelo rinfacciare, davanti a tanti: “Che ce ne frega di un prete perfetto? A noi piace il don Marco vero”. Mica in tanti me l’avevano detto: che piaccio loro peccatore, imperfetto, slabbrato. D’allora, tutto come allora, ad amarmi per come sono: traditore, peccatore, sognatore ferito, amante incostante, uomo in costruzione. A dirmi e a dire: “Ho peccato, mi sono innamorato, ho sbagliato, sono caduto, chiedo scusa, mi piange il cuore, ho frainteso”. Libero di dire a me stesso “sei un peccatore”, e altrettanto libero di sentirmi dire da Dio “Che m’importa? Torno a scommettere su di te, m’incuriosisce la tua umanità fragile e incantata”. La parrocchia dei lupi oggi è la mia palestra d’umanità: là dentro, con loro, faccio le prove generali di ciò che, nel mondo dei liberi, mi vergogno assai di mostrare: con loro, invece, no. Mi esercito con loro, come quando ripassavo le pagine di storia con mia mamma da bambino: è bellissima la libertà di sapersi non più perfetti. Gente vera. Poi, uscito, non ci penso più di tornare come prima: rimango ferito anche fuori. E m’accorgo di piacermi di più, di sentirmi più uomo, meno dio, più gustoso. Ma quale lupo: a me, adesso, fan paura le pecore. Mica m’arrabbio con loro, però: lo ero anch’io prima d’abitare l’inferno.
Sono stato un privilegiato a piantare la tenda, in compagnia di Dio, nell’inferno. Lui con me, come Brunetto Latini con Dante: ad imparare «come l’uomo s’etterna». “Tu che vivi con i lupi non hai più paura di nessuno, allora” — m’ha detto un giorno un bambino tutto curioso. Solo di una cosa ho tanta paura: di tornare a sognarmi perfetto, di volermi sapere impeccabile, di sentirmi immune da qualsiasi errore. Non so il perchè di queste righe che ho scritto seduto nella panchina di un autogrill: chiedo scusa se mi sono confessato. Ho violato il segreto della confessione, quella mia, ma ci tenevo troppo a ripetermelo, vedendolo scritto: diventare uomini è saper rimettere in gioco ogni giorno le proprie convinzioni. Adesso, dunque, ricordo perchè avevo iniziato a scrivere.
Avevo appena sentito alla radio il Papa Francesco dire ai sacerdoti del Kenia: «Grazie per aver il coraggio di seguire Gesù. Grazie per ogni volta che vi sentite peccatori». Ecco: mi sono sentito a mio agio e ho risposto “prego, papa Francesco” con queste righe. Adesso, allora, lo posso dire senza più rossore sul volto: ho scritto tutto questo perchè nell’anno della misericordia io ho scelto da che parte stare, quale misericordia usare. Sarò misericordioso verso me stesso: voglio continuare ad amarmi tutte quelle sere che, rincasato, scoprirò d’aver fallito il bersaglio. Troppo bello cadere dal seggiolone e potersi rialzare. Troppo noioso rimanere sempre sul seggiolone, senza mai cadere.