E’ il grido feriale di chi sta asserragliato dietro le sbarre delle patrie galere: “Amnistia, amnistia!” Un grido, una richiesta d’attenzione, una litania imbevuta di angustia. Un’invocazione che, puntuale, ritorna in occasione di ogni giubileo che la Chiesa indice. E’ la sfida che rilancia Francesco, un Papa che come nessun altro sta prestando la voce a chi, mancando della libertà fisica, scopre d’essere privato pure della libertà di parola, d’espressione: «Desidero rinnovare l’appello alle autorità (…) a considerare la possibilità di un’amnistia». Il Papa, ogni Papa, conosce l’arte dell’arciere: nel tiro con l’arco, la freccia va lanciata alta perché arrivi il più lontano possibile; se la si punta verso terra, la freccia fa poca strada. Per questo, forse, scocca alta la freccia, Francesco, pur sapendo la quasi impossibilità della sua richiesta. Rimane doveroso il suo puntare alto, così come è doveroso chiedersi se sia davvero educativa un’amnistia.
Per le celle del carcere, si corre sovente un rischio: quello di dire “da oggi mettiamo una pietra sul passato, siamo uomini diversi”. E’ una tentazione accovacciata nei pensieri dei detenuti, dei volontari, degli educatori. Di chi, prossimo alla carne-sofferente, scopre l’illogicità e l’illegalità di certe pene.
C’è del diabolico, però, imboscato in quest’affermazione: noi siamo anche il nostro passato. Siamo così impastati di passato che il futuro, organizzato nel tempo presente della detenzione, sarà tanto più credibile quanto più affonderà le sue radici nella terra del passato, non nella cancellazione di esso. Concedere un’amnistia è cancellare con un colpo di spugna un pezzo di responsabilità. E’, forse, anche porgere un sospetto d’offesa a chi non può invocare una forma parallela di amnistia che cancelli la sofferenza patita, fosse anche del più piccolo dei gesti. L’amnistia che chiede Francesco è una possibilità da valutare, non un credito da vantare: pure lui, uomo di odori e di pecore, sa che la misericordia cristiana non cancella la giustizia, ma rimane un’urgente esigenza di prendere in mano la propria vita e rimettere mano a quella strada, con Dio.
Dissentire sul valore educativo dell’amnistia è, dunque, stare dalla parte della tortura? Assolutamente no: chi firma queste righe è parroco di una pesante patria galera del Nord-Est d’Italia. Che, proprio perché sporcato di queste storie fangose e graziose, ha fatto i conti con una sfumatura indelebile: un conto è vivere la pena, tutt’altra cosa è subire la pena. Non è per il fatto di aver scontato dieci anni di galera che un uomo possa dire d’aver espiato la pena: può anche averli vissuti passivamente, senza il minimo ravvedimento.
Per la giustizia dei tribunali ha pagato il conto, è a posto, può tornare in libertà: ma ha veramente risarcito e riscattato, a se stesso prima di altri, il suo passato? Una pena è stata scontata quando, scontandola, l’uomo ha compreso la gravitas del gesto compiuto, del male arrecato.
In quest’ottica, profumano di cielo le prime parole di Francesco: «Valutare la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria». Eccolo il vero segreto per il quale metterci la faccia, il cuore: far sposare la giustizia con la misericordia. Fare di tutto perché, mentre sconta la sua pena, il detenuto possa rimanere dentro la società che ha tradito. Isolarlo, sovente, è assai comodo: ci si vergogna così tanto di se stessi che starsene protetti dietro le sbarre diventa conveniente. La vera fatica è scontare la pena dentro la mischia, faccia a faccia, uomini con gli uomini. Solo così il detenuto può guardare in faccia la vera realtà; solo così la società ha l’occasione di cedere che quel bandito sta diventando diverso.
Non ho mai creduto al motto che “vince chi fugge”, perciò non credo all’amnistia. Credo nella rieducazione: quella che, senza sottrarre la responsabilità, insegna a scrutare il riscatto dentro la grana della prigionia. Tutelando vittime e carnefici.