“Parla per la prima volta il signor P2”. Con questo titolo a nove colonne, sulla nobile, “epica” terza pagina del Corriere della Sera, il 5 ottobre 1980, fece irruzione nel mondo della grande informazione il “maestro venerabile” Licio Gelli, morto martedì notte alla veneranda età di 96 anni. Quella fu un’intervista “in ginocchio” di Maurizio Costanzo al capo della Loggia Propaganda 2, una loggia riservata, illustre e storica della massoneria italiana di Palazzo Giustiniani. Anche Giuseppe Garibaldi era stato venerabile della P2.
In quel momento, Maurizio Costanzo era una specie di battitore libero e di “leone rampante” del giornalismo italiano, famoso per le sue conduzioni televisive fatte di domande incalzanti. In via Solferino dirigeva L’Occhio, un quotidiano di casa Rizzoli che si rivelò un flop catastrofico e che ebbe vita breve.
Molti vecchi corrieristi, forse, si ricordano ancora che quell’intervista in terza pagina (quella di Buzzati e di Montale, tanto per intenderci) sollevò più di una perplessità, perché non aveva giustificazioni plausibili e soprattutto non si capiva perché il lungo colloquio (carico di significati oscuri e di avvertimenti a destra e a manca) era avvenuto con un giornalista di “casa”, ma non del Corriere.
Ci fu chi sottolineò che l’articolo era arrivato in redazione già titolato, come un “prodotto” della ditta da non toccare e da vendere al pubblico. Ci fu stupore e un’assemblea di redazione per protesta. Ma era solo l’inizio di anni drammatici per il Corriere e anche per l’Italia, e la ragione di quella intervista si comprese molto presto.
Chi si occupava di rapporti di potere, di banche, affari nazionali e internazionali, lavoro sporco dei servizi, sapeva comunque, più o meno, chi era Licio Gelli. Era stato un giovane e duro fascista di Pistoia, che alla fine della guerra e dopo la Liberazione se l’era cavata, diventando incredibilmente ricco e pure graziato da ogni responsabilità avuta con il regime. Per l’abilità che aveva dimostrato in alcuni suoi rapporti con ambienti partigiani e, secondo alcuni, come vedremo, addirittura con Palmiro Togliatti, l’incontrastato capo del Pci. In più, a favore di Gelli pesavano i suoi grandi rapporti internazionali, con il Sudamerica, innanzitutto, con il presidente argentino Juan Domingo Perón, con lo “stregone” peronista José Lopez Rega e con altri regimi come in Uruguay.
Ma andiamo con ordine. Lo scandalo della P2, che fece realmente tremare l’Italia intera, scoppiò nel marzo del 1981. Due magistrati milanesi, Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che indagavano sul crac di Michele Sindona, fecero sequestrare in una delle aziende di Gelli, la Giole di Castiglion Fibocchi, un elenco di 962 nomi che includeva tre ministri, i vertici dei servizi segreti italiani, 208 ufficiali, 18 alti magistrati, 49 banchieri,120 imprenditori, 44 parlamentari, 27 giornalisti, tra cui anche Maurizio Costanzo, l’estensore del famoso prodotto “sintetico” della terza pagina del Corriere della Sera. Ma pure Franco Di Bella, direttore del Corriere, e Gustavo Selva, direttore del Gr1 della Rai.
E c’è pure chi sostiene che dall’elenco sono stati “cancellati” in extremis alcuni personaggi di primo piano, come qualche cardinale di Santa Romana Chiesa e qualche altro banchiere o politico di primo livello. Mentre di altri personaggi si trova una domanda di iscrizione, da valutare, che appare imbarazzante. Insomma, un'”assemblea” di personaggi che appare inquietante. Una concentrazione di potere (politico, militare, finanziario, mediatico, di intelligence) legato da un giuramento massonico che sembra voler imporre un potere nuovo, in contrasto con i valori e i principi democratici e costituzionali dell’Italia repubblicana.
In questo modo, la P2 di Licio Gelli diventa un uragano che si abbatte sul governo di Arnaldo Forlani e sull’Italia dell’epoca.
Ma, se si guarda ancora di più a fondo, è soprattutto lo spaccato di un’Italia impastata di intrighi di basso e grande livello, di ricatti, di doppiogiochismo, di consorterie con la vocazione per gli affari nascosti, l’arricchimento spregiudicato e il tentativo di controllare la vita democratica del Paese, con la propensione a manipolare e a depistare le vicende tragiche di tante storiacce italiane.
E’ in questo contesto che Gelli appare quasi come l’emblema dell’ambiguità di una certa Italia, del suo perenne trasformismo e opportunismo. Pur coinvolto in scandali finanziari come quello di Michele Sindona e di Roberto Calvi, pur condannato per depistaggio sulla strage di Bologna, per il crac del Banco Ambrosiano, alla fine il “venerabile”, tra fughe in Sudamerica e dalla prigione ginevrina di Champ Dollon (dopo un quasi “sacrilego”, per la Svizzera, arresto in banca), tra rientri in Italia, brevi periodi di carcerazione, ma poi scarcerazioni e concessioni di arresti domiciliari, è morto a casa sua, nella sua “Villa Wanda” di Arezzo, meta conosciuta a politici, finanzieri, militari, giornalisti di ogni tipo, uomini dei servizi segreti, probabilmente non solo italiani. Villa Wanda che assomigliava, per la torretta nel centro, all’altra grande villa di Gelli all’ingresso di Cap Ferrat, davanti alle isole Lérins, dove pure si rifugiò, da alcuni frati, dopo la sua fuga dalla prigione svizzera.
L’ambiguità quasi spudorata di Gelli sta anche nella valutazione che di lui danno quelli che se ne sono occupati giornalisticamente e storicamente. Si è discusso a lungo se nella P2 e nei disegni di Gelli prevalesse il lato golpista o il lato affarista. La commissione presieduta da Tina Anselmi sulla Loggia P2, che consta di 120 volumi, getta ombre sinistre sui piani di Gelli e soprattutto indica un “punto chiave”, in odore di golpe, sul cosiddetto Piano di rinascita democratica.
Ma visto quello che è avvenuto negli anni successivi, malgrado il successo dell’iscritto alla P2 (anche se lui ha sempre smentito) Silvio Berlusconi, non pare che questo piano piduista abbia avuto un grande successo. E non pare che ci fosse proprio una grande vigilanza contro i progetti di Gelli.
C’è piuttosto da notare l’abilità di Gelli nel muoversi sul retroscena della fragilità democratica dell’Italia e la sua capacità di alimentare una grande sfiducia sulle istituzioni. Con l’obiettivo forse di mantenere una democrazia debole e poteri anarchici forti. Questo è quello che ottiene veramente Gelli, con la sua rocambolesca esistenza, pagando partiti, personaggi politici, inserendosi nel mondo della stampa, controllando di fatto il Corriere della Sera, ma nello stesso tempo favorendo ambigui “patti” con la concorrenza.
In realtà, Gelli si serve della politica per fare i suoi grandi affari, ama fare il “burattinaio” e screditare lo stesso potere politico. Era patetica la sfilata degli “uomini importanti” che sfilavano all’Hotel Excelsior e al bar Doney di Roma, in via Veneto. Tutti a chiedere favori al “venerabile”, che in questo modo accumulava ricchezza e potere di ricatto, magari incamerando utili pettegolezzi, indiscrezioni e “scheletri nell’armadio” che un po’ tutti avevano. Insomma, al “venerabile” piaceva che sapessero che “dietro le quinte” c’era uno che contava davvero. Ma in quanto a visione politica e a piani alternativi, Gelli ne capiva probabilmente poco e forse gli interessavano anche poco.
Chi ha indagato in controluce su Licio Gelli è stato un grande giornalista del Corriere della Sera, Gianfranco Piazzesi, che fu anche direttore del quotidiano fiorentino La Nazione. E’ Piazzesi a svelare con un libro bellissimo, dal titolo La caverna dei sette ladri, che sembra una fiaba ma è del tutto vero, il lato più caratteristico di Gelli, il grande doppiogiochista che pensa ad arricchirsi e a esercitare il suo potere anarchico.
Piazzesi svela il segreto di uno dei grandi bottini del dopoguerra, il tesoro della Banca Jugoslava, trafugato da un treno-ospedale nel 1941. E’ in realtà un treno carico di lingotti d’oro e l’operazione viene diretta da un personaggio di primo piano del fascismo, il generale Mario Roatta, ma anche da un “infermiere” che si chiama “Licino” Gelli. Alcuni vagoni di quel “treno d’oro” finirono su un binario morto a Trieste e alcune casse d’oro non si ritrovarono più. Si parla di una sessantina di casse.
Il seguito della storia è intrigante. Mentre Gelli comincia a depurarsi dal suo passato di fascista, diventa ricco e prende contatti con ambienti partigiani, si arriva alla fine del 1944, dove si parla addirittura di un incontro tra Gelli e Palmiro Togliatti, anche per discutere di qualche cassa d’oro. A proposito di questo, Piazzesi scriveva: “I politici del futuro non saranno mai credibili fino a quando non faranno un po’ di trasparenza in un così assurdo passato”.
I problemi si presentarono presto, non per Gelli, ma per Piazzesi. Da direttore della Nazione fece indagare un suo grande cronista, Giulio Giustiniani (poi vicedirettore del Corriere della Sera) sulla vita di Gelli. Giustiniani riuscì a ricostruire bene i passi e i passaggi del “venerabile” muovendosi a Pistoia e dintorni. Il risultato? Piazzesi fu licenziato in tronco e improvvisamente da direttore de La Nazione.
Evidentemente certe ambiguità italiane e i giochi sottobanco dei “burattinai” di ogni tipo non si possono raccontare in Italia. Così Gelli può essere indicato come golpista e, nello stesso tempo, come finanziatore anche di giornali del Pci, come fece il Banco Ambrosiano (in cui Gelli pesava) con Paese sera: 20 miliardi.
Così Gelli può essere sospettato persino per “pasticci” in merito al caso Moro, mentre attraverso il Corriere della Sera indicava con severità la linea della fermezza e della non trattativa. E lo stesso Gelli può passare per uno dei più fieri anticomunisti, anche se (Togliatti e altri a parte) era un intimo amico di Nicolae Ceausescu, il dittatore comunista rumeno.
La parola d’ordine della storia italiana è sempre doppia: confusione-rimozione. Così, nel regno dell’ambiguità, il piduista Licio Gelli è stato il re indiscusso e il simbolo di una decadenza che è arrivata sino ai nostri giorni.