Caro Direttore, è sempre più frequente che la gente si stupisca di gesti semplici di umanità a cui non diamo quasi più valore, tanto ci sembrano normali, abituali. In un centro di accoglienza un volontario chiama per nome un profugo pachistano, alla domanda se preferisce pasta in bianco o al sugo, carne o pesce, quello scoppia a piangere per la commozione. 



Una giovane manda un sms a un bulgaro appena incontrato: «Come stai?»; l’uomo è stupito che una persona quasi sconosciuta si interessi di lui. Potrei raccontare all’infinito episodi di questo genere. Possono essere gesti semplici, come quelli accennati, oppure eclatanti: pensiamo a quei tedeschi e austriaci che sono corsi ad accogliere i profughi alla frontiera e ai tanti che ogni giorno soccorrono coloro che sbarcano sulle coste italiane. Sembra niente di fronte alla enormità dei problemi, eppure il loro effetto è tanto dirompente in coloro a cui capitano, quanto può apparire banale, insignificante e scontato a noi che vediamo accadere questi episodi. 



Un semplice atto di buona educazione è sufficiente per spiegare la loro sorpresa? Per poter guardare così un profugo e per potersi rivolgere così a un estraneo, occorre qualcosa di cui abbiamo quasi perso coscienza. Continuando a piangere, il profugo racconta degli anni trascorsi in un’altra parte del mondo, dove il suo datore di lavoro non l’aveva mai chiamato per nome e dove si sfamava con una ciotola di riso. Ma ora qualcuno lo chiama per nome e gli domanda perfino che cosa desideri mangiare.

Da troppo tempo abbiamo smarrito la consapevolezza dell’origine di questo sguardo sull’uomo e così facendo possiamo anche perdere la familiarità con i gesti nati da esso. Per questo abbiamo bisogno che l’altro ci ridoni, attraverso lo stupore del suo volto, la coscienza della nostra storia e di quello che portiamo. 



Che cosa ha generato questo sguardo all’altro, questa stima nei suoi confronti che desta in lui tanta meraviglia? Non dipende certo dal fatto che noi siamo “più bravi”. Semplicemente noi apparteniamo a una storia che è iniziata con l’antico popolo di Israele. Una storia che ci ha generati facendoci percepire tutta la commozione di Dio per noi, aldilà delle nostre capacità, come dice il profeta Isaia: «Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori». Un Dio che, malgrado tutti i nostri sbagli, ci ripete senza stancarsi: «Dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza». Chi non desidera essere guardato così? «Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto, ma con affetto perenne ho avuto pietà di te» (Is 54,1ss.). E questo amore, questa passione è per la tua vita, non per quella dell’umanità in generale, ma per la tua vita. È per la mia vita che vengono dette queste parole, come ci ricorda papa Francesco: «Per te, per te, per te, per me. Un amore attivo, reale. Un amore che guarisce, perdona, rialza, cura» (10 luglio 2015).

Tutta la possibilità di non temere, di non essere determinati da ciò che ci fa arrossire e dalla nostra infecondità ha un punto di appoggio sufficiente solo quando diventiamo consapevoli che, «anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia» (Is 54,10). 

Ci rendiamo conto che dietro gesti apparentemente semplici c’è questa storia di preferenza di Dio per noi? È stata questa preferenza, sperimentata nella liberazione dall’Egitto, che ha consentito a Israele di guardare il forestiero in un modo non abituale per il mondo antico: «Amate il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto» (Dt 10,19). E tale preferenza è culminata quando il Verbo si è fatto carne, è venuto ad abitare in mezzo a noi e nella vita della Chiesa genera un soggetto che guarda l’altro con un interesse totale per il suo destino. Senza la consapevolezza di quello sguardo pieno di predilezione per me e per te non c’è Natale! Ci sarebbe solo un rito formale, come tante cose che facciamo senza che niente in noi esulti. 

Il Natale non sarebbe il riaccadere dell’origine della grande storia di vera umanità di cui siamo parte, ma lo stanco ripetersi di una tradizione incapace di muovere il nostro cuore e di generare i gesti di umanità che tanto colpiscono gli altri. Per questo siamo pieni di gratitudine verso il Papa che ha compreso quanto siamo bisognosi. L’Anno della Misericordia è il riaccadere di quello sguardo oggi. Di quell’amore che ci raggiunge lì dove siamo e così come siamo attraverso facce sconosciute che con il loro esultare, come Giovanni Battista nel grembo di Elisabetta, ci restituiscono la nostra vita e ci invitano a riconoscere il disegno di Dio − questo “quasi nulla” che sembra essere il disegno di Dio −, che da duemila anni ci raggiunge attraverso un volto: «Dio, il mistero, il destino fatto uomo, si rende presente ora a me e a te, e a tutti gli uomini che sono chiamati a vederlo, ad accorgersene, in un volto: un volto umano nuovo in cui ci si imbatte» (don Giussani). Un volto che ci domanda con semplicità disarmante: «Come ti chiami? Come stai?» e che fa esultare fino al pianto.

Riconoscere la modalità con cui Dio ci chiama – attraverso la faccia più sconosciuta − è l’unica possibilità per non rendere vano il Suo disegno di misericordia su di noi e per continuare ad essere testimoni di quello sguardo che rende veramente liberi, in qualunque situazione. 

(Lettera pubblicata sul Corriere della Sera del 23/12/2015)