Ricordo bene Cristina Caccia, la sua coda di cavallo scura, il suo sorriso, discreto, il suo andirivieni svelto e fattivo nella radio salesiana dove imparavamo a lavorare, da ragazzi. Suo padre era appena stato ucciso. E quel sorriso era più forte del dolore, della vendetta, della paura. Per me inspiegabile. Suoi padre era il procuratore torinese Bruno Caccia, ucciso il 26 giugno 1983 a sangue freddo, a pochi passi da casa sua, là dove il Po lascia spazio al verde che monta delle colline. 14 colpi, una scarica per mandare in pensione uno dei magistrati più intelligenti, irreprensibili, una persona perbene. 



Erano anni terribili, ogni giorno un bollettino di guerra: il piombo arrivava alle gambe, alla testa. Le Brigate rosse e i loro sodali avevano portato il piombo al cuore, con la paura. Cominciavano però le prime crepe nell’inossidabile legione armata: Patrizio Peci, Roberto Sandalo, cominciavano a parlare i primi pentiti. Bruno Caccia, a capo della Procura di Torino, ascoltava, coordinava. Contemporaneamente si muoveva con precisione ed efficacia su altri terreni, meno scoperti e forse più insidiosi, che davano fastidio a politici, imprenditori, militari. Tangenti, speculazioni edilizie. 



Era un uomo prudente, non giocava d’azzardo, ma le passeggiate col cane, la sera, erano un’abitudine, e lì fu colpito, una domenica sera d’inizio estate, quando poiché era festa aveva lasciato liberi gli uomini della scorta. Non erano le Br, nonostante una falsa rivendicazione. Non erano i neofascisti, perché se non veniva da una parte il terrore, veniva dall’altra, si dava per scontato. C’era una terza via, onnipresente, quella della criminalità organizzata, che portava il nome di ‘ndrangheta. La mafia c’era anche al nord, e anche al nord uccideva d’estate. Caccia era uno con cui non si poteva parlare, disse uno dei criminali, incastrato solo dieci anni dopo. Traduzione: non corruttibile, non ricattabile. Cosca dei Belfiore, ergastolo per il mandante dell’omicidio. Sequestro del suo cascinale che diverrà, grazie alla gestione di Libera, un luogo di lavoro pulito e di memoria. Perché di memoria, su questo servitore dello Stato, onesto, riservato, cristiano, ce n’è stata poca.



Sono passati 32 anni, da allora e la famiglia non ha mai smesso di cercare la verità. Nel frattempo Domenico Belfiore è uscito dal carcere, anche gli ergastoli finiscono, benché per certa gente non dovrebbero finire mai: grazie a una lettera anonima gli investigatori gli hanno fatto avere il nome di un sospettato, e la rete di protezione della “famiglia” si è mossa. Così, il killer del magistrato, Rocco Schirripa, professione panettiere, è stato scoperto. Nella sua tranquilla esistenza, intramata di legami sporchi e scheletri. Chissà se anche di rimorsi. Difficile che i mafiosi si pentano. Non è valso neppure un papa a intimarglielo. 

Ma dietro questo manovale del sangue, chi c’era? Il pm Boccassini sospetta che ci siano altre pagine da scrivere, su questa storia presto dimenticata che tirava in ballo i casinò del nord, che riciclavano denaro sporco dai sequestri di persona. E silenzi così profondi da far balenare complicità oscure, collusioni che hanno segnato la storia di questo paese, senza esplodere, senza incrinarsi mai, e questo è osceno. 

Guardo le foto segnaletiche di Schirripa, 32 anni fa. Un ragazzo, con i capelli lunghi, scuri. Guardo la foto del pregiudicato Schirripa, panettiere, oggi. Grasso, senza capelli, un  vecchio mal vissuto, nonostante una professione così mite, buono come il pane, si dice. Chissà se lo faceva buono, il pane.