Dopo la strage che ha sconvolto nuovamente il mondo lo scorso 13 novembre a Parigi, risuona ancora una volta l’affermazione impressionante contenuta nel comunicato di rivendicazione dell’attentato dell’11 marzo 2004 a Madrid, attributo al portavoce di Bin Laden: “Noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita”.
Già dopo la tragedia apocalittica delle Torri Gemelle a New York l’Occidente era rimasto sconvolto dalla furia ideologica dell’estremismo fondamentalista di matrice islamica, ma Madrid e Londra prima, Parigi ora hanno oscurato l’idea pur giusta e tranquillizzante di un’Europa, centro del dialogo con tutti, luogo di apertura sul Mediterraneo e nesso col Medio oriente. Questa idea è messa in discussione dal terrore, che è precisamente lo scopo del terrorismo: riempire di incertezza e confusione l’urgenza di una reazione, che protegga noi, le nostre città e il nostro mondo. Ma proprio il fatto che tutti avvertiamo la necessità di difenderci deve farci riflettere su cosa vogliamo veramente difendere e quale sia la difesa vincente sul lungo periodo.
Che cos’è la paura che ci fa sentire insicuri, precari e sospettosi, quando per strada, al bar, in treno e soprattutto in aeroporto vediamo e sentiamo persone o gruppi diversi da noi chiacchierare in una lingua che ci sembra arabo? Il nostro benessere, la nostra organizzazione sociale, il nostro ordine non bastano a darci certezze, a contrastare quella dedizione che i terroristi hanno per la morte, sì da sembrare indomabilmente più forti di noi. C’è un ideale per cui valga la pena vivere, più potente di quello per cui i terroristi muoiono?
Un’ideale per vivere è molto di più di uno per cui morire. Nel primo caso, la vita, pur con il suo carico di contraddizioni e sofferenze, è positiva, luogo di significato, compimento e promessa di compimento. I martiri cristiani hanno dato e purtroppo danno la vita, vivendo e affermandola anche quando viene loro tolta violentemente.Nel secondo caso, la vita propria e altrui è insignificante e vi si può rinunciare o sopprimerla per un utopico progetto di paradiso terreno o ultra-terreno. Si tratta di una declinazione più elementare delle ideologie che hanno insanguinato il novecento. Mentre siamo impegnati a discutere di quale spazio dare a presunti nuovi diritti, indifferenti o polemici con i valori e le verità della nostra tradizione, siamo investiti da un treno in corsa, che travolge la nostra superficialità e disattenzione.
Il buio della tragica ondata di nonsenso, di cui siamo vittime e autori, deve trasformarsi in una spinta cogente a riflettere su chi siamo e così una sponda per un possibile cambiamento, per un possibile sguardo nuovo sulle cose. C’è ancora qualcosa per cui continuare a uscire di casa, andare al lavoro, metter su famiglia, portare i figli a scuola, anche solo andare al cinema, a fare la spesa o partire per un viaggio, curarsi per una malattia, assistere chi ha bisogno, decidere di continuare a respirare stesi su un letto di ospedale senza più poter muovere un muscolo se non le palpebre… insomma vivere e convivere?
Nel corso di un ritiro spirituale tenuto agli studenti universitari di CL nel ’94, don Giussani raccontò un episodio riguardante Madre Teresa di Calcutta. Un giornalista aveva intervistato una giovanissima suora di Madre Teresa, non ancora ventenne, e lei disse: «Ricordo di aver raccolto un uomo dalla strada e di averlo portato nella nostra casa». «E cosa disse quell’uomo?» «Non biascicò, non bestemmiò, disse soltanto: “Ho vissuto sulla strada come un animale e sto per morire come un angelo, amato e curato. […] Sorella, sto per tornare alla casa di Dio” e morì. Non ho mai visto un sorriso come quello sulla faccia di quest’uomo.» Il giornalista replicò: «Perché anche nei più grandi sacrifici sembra che non ci sia sforzo in voi, che non ci sia fatica?». Allora intervenne Madre Teresa: «È Gesù quello a cui facciamo tutto. Noi amiamo e riconosciamo Gesù, oggi». E commentava don Giussani: “Quel che c’era ieri o è oggi o non c’è più”. È proprio questo “oggi” che fa la differenza, il riconoscere quello sguardo sulla propria vita oggi, non ieri o 2000 anni fa. Perché uno avverte immediatamente come bene un gesto come quello descritto, a prescindere dalla propria posizione religiosa o ideologica? Perché è profondamente umano e quindi vero per tutti. Risveglia qualcosa che c’è nell’io, che magari uno neanche si ricorda di avere. Corrisponde! L’argine alla disumanità dei tempi è un cuore che desidera vivere per il bene, per quel bene che rende ragione del passato e desta la speranza per il futuro. L’ideale della libertà sul quale sono stati costruiti i nostri paesi, sfida qualsiasi violenza dentro e fuori i confini e ha la sua origine nel fatto che ogni singolo essere umano, qualunque sia la sua condizione fisica e morale, è rapporto con l’infinito e quindi ha un destino di cui nessuno può essere padrone. Dare la vita per il bene della singola persona, non per distruggere l’altro in nome della morte. Chi difende il nulla, chi nega l’urgenza di sostenerci a cercare un significato per il vivere, fa da sponda ai messaggeri della morte. Perché i messaggeri della morte sono i messaggeri del nulla.
In questa situazione dobbiamo riconoscere che l’unica possibile ripartenza è un’educazione autentica, la liberazione dell’io dalla schiavitù di un orizzonte piccolo per la propria esistenza. Solo con un ideale grande c’è libertà, e quindi coraggio per affrontare la vita, comunque essa si presenti. La risposta adeguata a tale esigenza non comincia con un’iniziativa nostra, ma dalla accoglienza di quello che magari inconsapevolmente aspettiamo. E’ Natale!
Il Natale, con la lieta notizia di Dio che si fa uomo, ci richiama ad accorgerci che l’umanità più grande di cui abbiamo bisogno si realizza attraverso l’ingresso nel mondo di una verità concreta, tanto inaspettata quanto visibile e frequentabile. Questo ideale ha un punto di verifica oggettivo che chiunque può riconoscere, in qualunque parte del mondo, qualunque sia il suo credo, religione, cultura, genere o sesso: esso afferma il bene e ama il destino di ogni singola persona.
Esiste un bene a cui dare la vita più grande del male che la nega? Finché non cominceremo a spendere la nostra vita per rispondere a questo interrogativo, saremo sempre schiavi della paura, perché la vita è appesa a un filo. Papa Francesco ci ricorda che l’unica giustizia che può trionfare è il nome di Dio e si chiama Misericordia: “Solo l’amore riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nel cuore e nella storia”.
Oggi come 2000 anni fa risuona in tutti gli angoli della Terra per bocca di quella cristianità che ha costruito l’Europa il grande annuncio con cui si avvia il vangelo di San Giovanni: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. Ma l’uomo di oggi, stremato dalle proprie ansie e ferito dalle delusioni, saprà ancora riconoscerla e accoglierla? Quello che propone il Papa con l’istituzione del Giubileo della Misericordia è la presenza di una realtà storica, positiva per noi tutti, contro qualunque minaccia di male, tanto del nemico da fuori quanto della nostra meschinità da dentro. La Chiesa si rivolge a noi come luogo scelto per ospitare e far conoscere l’avvenimento di Cristo che permane nella storia. Questa scalcagnata compagnia umana nella quale continua ad essere presente il Verbo fattosi carne è il metodo che ha voluto Cristo stesso. Questa è in fondo la nostra sicurezza, nient’altro.
Pubblicato in collaborazione con il settimanale Tempi