AMBANJA, Madagascar — La festa di Natale, un evento importante nel calendario. Le nostre tradizioni europee: la santa messa a mezzanotte, l’incontro con gli altri membri della famiglia (quando questo avviene), il crearsi di un’atmosfera particolare, quasi mistica, la neve, il freddo ci portavano a vivere in un certo modo questo periodo. Per me è un lontano ricordo.



Vivo in Africa dal 1980 in paesi dove il clima, le tradizioni, la cultura, spesso la religione sono cose differenti da quelle che ho vissuto da ragazzino. Quasi non ricordo più quello che si viveva in casa all’epoca.

Messe da parte queste tradizioni, penso che la mia esperienza di vita sia quanto di più vicino allo spirito del Natale. Sono arrivato in Africa nello Zaire (1980-1983), poi nel Madagascar, nella città di Ambanja, Provincia di Antsiranana (1983-2015) come missionario, medico chirurgo, in carico al lebbrosario di Ambanja e poi al centro medico-chirurgico. Al lebbrosario ho trovato molti bambini che erano nati lì dentro e abbandonati a se stessi. La prima mossa è stata quella di organizzare una mensa per loro, una scuola, una casa a parte, per farli vivere come una famiglia (cosa che purtroppo non hanno mai avuto prima). Parliamo di una trentina di bambini.



Nello stesso tempo si è aperto il centro medico chirurgico San Damiano. Anche lì una bella esperienza, sempre con l’infanzia. Avere un reparto di pediatria ha salvato centinaia di bambini che prima di allora erano destinati a non nascere o morire nella prima età. 

In principio questa attività dell’ospedale doveva essere il mio lavoro. Il buon Dio ha disposto diversamente. Alla fine del 1984, una bambina di tre anni viene abbandonata sulla veranda del dispensario del lebbrosario. Dopo sette mesi in ospedale la dimetto e l’accompagno dal presidente del tribunale di Ambanja, dicendogli che si sarebbe dovuto trovare una casa di accoglienza per quella bambina. La sua risposta: “Qui non ci sono, a meno che tu non ne faccia una”.



Detto così sembra poca cosa, ma da queste parole si è creata una casa che ha accolto centinaia di bambine e bambini (alcuni ora hanno più di trent’anni). Si è creata una associazione, “Alessia et ses anges” (dal nome di una bambina morta di meningite a sette mesi) che ancora oggi accompagna i bambini dalla prima infanzia fino all’università per formarli alla vita e dar loro un futuro migliore.

I piccoli rimangono ad Ambanja. Per gli studi più avanzati — collegio, liceo, università — è nato un villaggio a 14 km dal centro di Tananarive, vi alloggiano 42 giovani che la mattina vanno a scuola con un bus. 

Credo che la cosa più bella che mi sia capitata nella vita siano i loro sorrisi, il fatto che si rifugiano nelle tue braccia per avere un affetto che non hanno mai avuto. Vederli interagire con le signore (sono nove) che si occupano di loro, per ricostruire quella immagine materna che a loro è sempre mancata. Vederli mentre si spartiscono un pezzo di cioccolato, un frutto (per loro è una cosa spontanea), vedere come le bimbe più grandi, di 7-8 anni, si occupano delle più piccole e dei più piccoli e quelle più grandi a loro volta di loro.

Penso che lo Spirito di Natale voglia ricordarci che dappertutto nel mondo c’è un bambino da assistere, da accompagnare nella vita, da consolare, e che noi si debba vivere con lui le sue gioie. I tanti bambini che muoiono ancora oggi perché cacciati dai loro paesi, e le difficoltà nell’accoglienza che noi facciamo nei nostri paesi, tutto questo ci dovrebbe far pensare.

Che questo Natale ci renda migliori tutti.