NEW YORK — Lavoro in un grande ospedale pediatrico a New York e siamo ormai a dicembre inoltrato. In ognuno dei 12 piani ci sono segni evidenti delle incombenti festività natalizie, stelle, alberelli, festoni, pacchetti ricoperti di carta scintillante, pupazzi di Santa Claus sulla slitta…Come ogni anno, preparo un piccolo presepe da mettere all’entrata del mio reparto, la terapia intensiva neonatale, per tenere vivo il ricordo di un fatto che ha cambiato la storia per sempre, ma è cominciato con la nascita di un piccolo neonato, proprio come uno dei nostri piccoli pazienti, così piccoli, deboli e indifesi. Martedì mattina la caposala mi chiama e mi dice che il presepe deve sparire. Stanno arrivando i controllori della sicurezza contro gli incendi e gli addobbi natalizi portano un rischio — seppure minimo — di incendio. Se non siamo in regola ci danno la multa. Non ci posso credere. “Ma il mio presepio è di ceramica… Non è a rischio di incendio” provo a suggerire, nel tentativo di mantenere la mia piccola opera d’arte che, ne sono certa, è un grande segno di speranza per molti dei genitori che visitano i bimbi malati.
Niente da fare, il presepe scompare in un sacchetto di plastica. Ma allora? Cosa posso fare? Nel frattempo sono chiamata in sala parto, una donna ha partorito inaspettatamente un bimbo molto prematuro, un maschietto piccolissimo, pesa solo 600 grammi. Non è cresciuto molto anche perché la sua mamma ha perso le acque ormai da molte settimane e si teme che i suoi polmoni non si siano sviluppati. Mettiamo il bimbo nella culla termica per tenerlo al caldo e gli diamo ossigeno attraverso una macchina potentissima che gli da 600 respiri al minuto. La sua vita è attaccata ad un filo… Dopo circa un’ora i genitori entrano a visitarlo. La mamma è sdraiata sulla barella — la stanno portando dalla sala operatoria al reparto di post-partum — ma fanno una breve sosta nella sala di rianimazione neonatale per farle vedere il bimbo, visto le sue condizioni assolutamente critiche. La mamma non ha occhi che per il suo bimbo, lo sfiora dolcemente col dito, gli parla sottovoce, il padre mi chiede “c’è speranza?”.
Già, la speranza. Mi viene in mente la speranza che volevo “sostenere” col mio presepe… invece del presepe ci sono io di fronte a questo papà, ma io ce l’ho la speranza da dare? Guardo il bimbo, guardo i suoi genitori e: “Congratulazioni! Avete un bel maschietto, è piccolino, eh? Ma come lo chiamate?” La mamma pensa un attimo, poi fa un gran sorriso e scandisce “Ethan”. Anch’io sorrido perché capisco, la mamma ha ragione, certo!, se c’è un nome c’è speranza, avere un nome vuol dire “essere chiamato”, cioè il Mistero di Dio l’ha chiamato alla vita, l’ha voluto e lo vuole ora.
La speranza è il fatto che questo bimbo c’è ora e la sua vita, pur appesa ad un filo, è preziosa agli occhi dei suoi genitori, agli occhi miei, agli occhi delle mie infermiere, dei tirocinanti e di tutto il personale presente attorno a lui nella terapia intensiva neonatale che lotta per tenerlo in vita e che starà con lui istante per istante per modulare le cure secondo i suoi bisogni. Ma la sua vita è ancora più preziosa agli occhi di Colui che l’ha creato per un compito e che gli donerà vita finché questo compito non sarà compiuto. Non ho bisogno del presepe, siamo qui noi nella grotta di Betlemme.