Il vescovo di Padova, Claudio Cipolla, ha aperto ieri una Porta Giubilare all’interno del carcere Due Palazzi: la seconda — dopo quella aperta in Cattedrale — fra le quattro individuate dalla diocesi padovana per celebrare l’Anno della Misericordia indetto da Papa Francesco. Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata da monsignor Cipolla durante la liturgia, le parole di saluto di don Marco Pozza, cappellano-parroco dei Due Palazzi, e una raccolta di testimonianze di detenuti.



“PAPA FRANCESCO E’ IN CELLA CON VOI”

Signore, sono venuto a pregarti in questo carcere, insieme a questi fratelli, onorato di essere da loro accolto. Sono qui per conto di tutta la nostra Chiesa padovana, delle sue comunità e delle sue famiglie. Sono qui interpretando anche il desiderio del nostro santo Padre Francesco che non esiterebbe un attimo ad entrare in una di queste celle e a chiedere — da carcerato — quanto sembra ancora impossibile agli uomini. Ma soprattutto sono qui umilmente per te, Signore, che non hai mai disdegnato di confonderti con i pubblicani e le prostitute, con i peccatori e i condannati. Sono qui per riconoscere e dire che Tu sei qui, non hai paura di sporcarti né mani né reputazione e custodisci per ciascuno una parola di salvezza.



So che questo è stato un anno difficile per questi nostri fratelli: un anno che ha spento in tanti di loro speranze, sogni, spiragli di luce. Per me è difficile, in questo contesto, annunciare in modo credibile il tuo Vangelo di amore, di giustizia, di misericordia. Per questo Signore non voglio spiegare il tuo messaggio, ma insieme con tutti loro pregarti, semplicemente pregarti. Abbiamo bisogno di segni di consolazione, di parole di incoraggiamento, di gesti che ci diano speranza. Facceli vedere, Signore. Dà intelligenza, volontà e forza a quanti ci governano, a quanti possono modificare regolamenti e leggi perché ad ogni uomo sia sempre riconosciuta dignità di uomo, perché vengano tolte le pene di morte, anche nascoste, come quelle di una pena che termina nell’anno 9999.



Questi sono giorni difficili, Signore, i giorni più difficili dell’anno. Si, proprio quelli del tuo Natale. In questi giorni si parla di calore, di affetti. Le famiglie si riuniscono e festeggiano, si scambiano auguri di bene. Buon Natale, si dicono! In più oggi è anche la festa della santa famiglia che in noi risveglia la nostalgia delle nostre famiglie, delle nostre mogli, dei nostri figli e dei nostri genitori. Nei loro confronti spesso ci sentiamo in colpa per averli privati della nostra presenza. Spesso l’unico gesto di amore possibile per loro è il nostro silenzio che paghiamo da “ostativi”. Sono giorni di tristezza, giorni di mancanza. In noi cresce una nostalgia profonda che talora si cambia in rabbia, ma più facilmente in chiusure del cuore, che sono più rigide di quelle delle nostre celle. E anno dopo anno il difenderci dal dolore che il Natale e le feste provocano in noi ci trasforma e ci toglie la tenerezza che è la ricchezza profonda di ogni uomo e di ogni donna. Fino al punto che nemmeno noi riconosciamo noi stessi. Signore, insieme, come fratelli, ti preghiamo anche per quanti non sanno che cosa sia il carcere e vivono schiavi delle banalità e delle luci, ingabbiati in stili di vita utili solo al consumismo e ai suoi meccanismi disumanizzanti.

Ti preghiamo per quanti, senza saperlo e per debolezza, ci procurano ulteriore male scagliandosi contro chi ha sbagliato, contro chi sa di aver sbagliato e accetta di vivere un percorso di liberazione dal suo delitto. Abbiamo di fronte agli occhi anche le persone alle quali, con le nostre azioni, abbiamo recato sofferenza e dolore. La nostra consolazione viene anche pensando che questo dolore possa essere in qualche modo risanato: forse tu, solo tu, puoi rimediare e portare consolazione dove noi abbiamo portato sofferenza. Ed ora compiamo un segno che dice che tu, Signore, sei più grande del peccato, del delitto, dell’ingiustizia fatta e subita. In questo carcere ci sarà una delle porte della misericordia. Non solo perché questi nostri fratelli ed amici non possono uscire e quindi per facilitarli, ma perché si sappia, tutto il mondo sappia, che tu sai entrare ovunque: entri nelle carceri, entri nelle celle, entri nei cuori ingabbiati. E li rendi liberi di amare. Tu non pretendi la risposta, ma intanto ci ami. Sarà l’amore a cambiarci, la tenerezza, la prossimità. Giubileo è quanto tu fai per noi. E’ da questa tua opera di tenerezza e di amore che nascono vita e speranza. O Signore, ti chiedo ora qualche miracolo.

Te lo chiedo da questo carcere: converti il mio cuore ad accogliere la tua tenerezza; fa che io, e don Marco che resterà in questa comunità, sappiamo parlare di qualcosa che abbiamo visto e toccato. E, quasi per contagio, molti altri sappiano raccontare il lieto annuncio del tuo amore misericordioso con la loro vita. Cerca chi parli di te tra i volontari, tra gli agenti di polizia, tra i carcerati e costituiscili “tuoi angeli” in mezzo a tanto dolore, rabbia e male.

Il secondo miracolo è che tutti questi uomini percepiscano che tu vuoi loro bene, che li stai attendendo come il padre attende il figlio allontanato da casa. E li attendi per abbracciarli e accompagnarli anche nelle loro pene, per confermarli, se vogliono, nella dignità di essere tuoi figli, proprio qui. Restituisci, o Signore, fin da ora coraggio e libertà di amare, di sperare, di sognare anche in una cella. Anche qui c’è spazio per la santità. E forse il tuo abbraccio è già avvenuto!

Il terzo miracolo: aiuta tutti noi, preti, carcerati e liberi cittadini ad accorgerci dell’importanza fecondante e generante della tua infinita e illimitata misericordia. Aiutaci a restare fratelli e a correggerci cercando il bene e facendo il bene. Così che la tua povera Chiesa, qui solennemente convocata, possa cantare in questo tempo ciò che, sull’esempio di Teresa di Lisieux, da sempre e per sempre deve ripetere “Le tue misericordie, o Signore”.

Amen

(monsignor Claudio Cipolla)

“LA MISERICORDIA E’ UNA ROBA-DA-DIO”

Robe-da-Dio La vita è una sinfonia di suoni: suoni gravi e solenni, pungenti e ribelli, acuti e imponenti. Suoni che somigliano a dei tocchi, a dei rintocchi, anche ad arpeggi e palpeggi. Suoni che destano curiosità come il tintinnio di un lamento, che impauriscono come le sirene della Polizia, che consolano come un passo amico dentro la paura. Ci sono suoni che rimangono suoni, altri diventano visioni, altri ancora odorano di vita. Pochi suoni, però, superano, per attrattiva, il bussare-alla-porta. Bussare è un po’ come suonare, anche un annunciare e annunciarsi, è un accendersi della memoria e dell’intuizione: “E’ lui. Anzi no: forse è lei. Chi è che bussa?”. Tante domanda dietro un bussare.

In queste settimane, passeggiando tra i corridoi di questo mondo popolato da uomini col passaporto di ferro-e-cemento, spesse volte mi sono chiesto: “Come mai proprio alla nostra parrocchia è toccato il privilegio di una Porta-Santa?” Già papa Francesco aveva reso tutte le porte delle celle delle porte-sante. Occorreva, davvero, che don Claudio calcasse ancora di più la mano, rendendo giubilare la nostra piccola chiesetta? Qualcuno me l’ha fatta pesare, facendomi capire che questi uomini non meritano così tanto, che questo luogo di educativo ha pochissimo. Forse hanno ragione, forse hanno torto: chi lo sa! A guardarla da fuori, la Grazia di Dio non è per niente facile da comprendere. Ti basta sfidarla una volta e perdere la partita per sentire che ti passa tutta la voglia di sfidarla anche solo una seconda volta: è pericolosissimo giocare al gatto e al topo quando sai di essere il topo.

Così ho capito che la non-risposta è la risposta più bella a questa scelta ch’è toccata a questo luogo dove Bene e Male non sono un teorema astratto ma una presenza concreta. Dove la Misericordia, quella che non è mai a basso costo, è una manovra assai seria e ardita. Anche ardimentosa certi giorni, da capottarsi dalle vertigini. Solitamente le porte si aprono con una chiave. Le chiavi, però, ingombrano, si possono smarrire: meglio avere chi ti apre la porta, magari con un sorriso. Nessuno, come chi vive ramingo, conosce l’emozione di vedere una porta aprirsi: è la speranza che riprende vita. Ecco, allora, che la Porta-della-Misericordia da noi è anche la porta del sorriso.

Chi troverà il coraggio di varcare quella porta, oltre l’indulgenza plenaria, otterrà anche un biglietto omaggio per assistere allo spettacolo più bello che la storia abbia mai trasmesso: quello di un uomo e di una donna che, caduti o sbattuti a terra, tentano in tutti i modi di rialzarsi. E’ la porta della misericordia, è la porta del sorriso, è la porta dei poveri-cristi: è la nostra porta e scusateci se ce la siamo arredata fin quasi a sfidare il buon senso. Qui dentro la fede è un insulto al buon senso. Benvenuti a tutti, allora.

Nel nome del Dio-Bambino che un giorno, parlando di se stesso in terza persona, amò raccontarsi come un Dio-che-bussa: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Un Dio che bussa: dopo il Dio-Bambino e il Dio-fornaio, è un Dio che sa di impasti e di incontri, di buono. Un Dio a disposizione di tutti, anche nonostante tutto o, forse, proprio per tutto quello che Gli abbiamo combinato. Per noi la porta è questo. Quando si chiude una porta, solitamente se ne apre un’altra: spesso, però, guardiamo così a lungo la porta che si è chiusa che non vediamo l’altra che si è aperta per noi: forse per questo, nella logica del Cielo, diventa santa anche la porta dell’autobus che passa sotto casa. Perché non capiti che qualcuno corra il rischio di sentirsi escluso quando c’è in ballo la salvezza.

Ecco perché, come parroco di questa piccola chiesa di periferia, vorrei fare di questa messa e di questo gesto del quale don Claudio e la Chiesa ci ha fatto dono inaspettatamente, un grazie liturgico. Grazie a chi? A tutti coloro (e credetemi che sono tantissimi) che, arrivati molto prima di noi da queste parti, hanno messo fondamenta solide alla speranza, organizzandone la crescita e la sussistenza: di certi loro sguardi, sento di essere profondamente debitore. In quegli occhi vi ho letto un annuncio natalizio anche in piena estate: qui a Padova l’uomo non è solo una scommessa che si può giocare, ma è addirittura una scommessa che qualche volta si riesce pure a vincere.

Questa porta che s’apre, sia il grazie di ciò che siete prima ancora di ciò che vi riesce di fare. E per voi, cari fratelli, che state scontando una pena, faccio mio un pensiero preso a prestito da un uomo che, quando lo leggo, mi abbevera la speranza, Dietrich Bonhoeffer. A Natale del 1943, scrive una lettera dal carcere ai suoi genitori: «Sopratutto una cosa, carissima mamma e papà: non dovete pensare che io mi lasci abbattere per via di questo Natale in solitudine. Esso prenderà per sempre un suo posto particolare tra quei Natali, ciascuno con una sua fisionomia diversa, che ho festeggiato in Spagna, in America, in Inghilterra; negli anni che verranno voglio poter ripensare a questo giorno non con vergogna, ma con un certo orgoglio. E’ l’unica cosa che nessuno può togliermi (Riconoscere Dio al centro della vita)».

Oggi inizia il Giubileo della Misericordia in questa terra di nessuno che Dio ha fortemente voluto fare propria. Per chi entrerà attraverso quella porta, per chi uscirà passando da quella porta, per tutti valga il suggerimento simpatico che ho trovato in un testo nel quale si parla di come salvarsi dalla fantasia dei ladri. Il consiglio è semplicissimo: la porta più protetta dai ladri è quella che si può lasciare aperta. Che sia un Giubileo di misericordia per tutti, sopratutto per chi, come tanti di noi, nella vita ha fallito: saperci amati nel momento in cui non lo meriteremmo di meno è il vestito-in-borghese che Dio indossa qui dentro quando non vuol farsi riconoscere. Non è questione di vergogna, è questione di delicatezza: la misericordia è una manovra serissima. E’ roba-da-Dio.

(don Marco Pozza) 

Enrico, Alfredo, Armando, Gaetano: le porte strette della vita, quelle larghe della fede e della misericordia

Enrico non è potuto tornare in carcere per l’apertura della Porta Giubilare: l’ha seguita in streaming dalla canonica della parrocchia di Campodarsego, poco lontano dalla casa circondariale padovana dei Due Palazzi. Quando si è aggravato — alcuni mesi fa, di un male serio — gli è stato consentito di uscire: e ha trovato accoglienza da don Leopoldo e dai suoi parrocchiani. Che ieri mattina occupavano metà della cappella parrocchiale dei Due Palazzi, assieme a molti detenuti, agenti, magistrati, amici del cappellano don Marco. Ma Enrico era più che presente, quando ieri don Claudio — il vescovo di Padova, da tre mesi vescovo anche di Enrico — ha aperto la Porta Giubilare, una delle quattro della Diocesi. Una porta di sicurezza di un carcere, dove neppure l’ingresso della cappella può fare eccezione; anche se una porta perfettamente ridisegnata per rammentare — essere — la Porta di San Pietro. Enrico, ha raccontato don Leopoldo dopo la liturgia dell’apertura e la Messa, la sua porta l’ha già varcata: quando è uscito dalla cella ed è entrato nella sua casa di Campodarsego. Dove tutti ora ringraziano di avere un nuovo parrocchiano e non vorrebbero andasse più via. C’è molta gente che varca la porta della canonica per andare a fare due chiacchiere con lui, “che ha la parola giusta con tutti”.

Alfredo — il sacrista della cappella e ora guardiano della Porta Giubilare — ha ricevuto da don Claudio una copia del diploma che ricorderà la giornata di ieri. Quando, dopo la messa, racconta la sua storia, tutti capiscono il perché di un piccolo-grande privilegio. E’ stato un rapinatore seriale negli anni 70, era legato alla quasi leggendaria Mala del Brenta, ha fatto dentro e fuori dal carcere fino a quando un pentito lo ha ha messo in guai peggiori di quanto meritasse. E’ fuggito in Colombia, ma in quasi vent’anni di latitanza non ha mai fatto il “narco”: ha fatto il lavapiatti e il cameriere. Ha trovato moglie, ha messo al mondo tre figli, ha cominciato a vedere la vita in modo diverso fino a quando Cristo gli ha parlato nel volto del suo primogenito: cui non andava giù di non poter portare il cognome del padre. Perché? Alfredo ha prima trovato il coraggio di spiegargli tutto (anche di non essere un assassino) e poi quello di volersi costituire: tornare in Italia, scontare la pena per poter dare alla sua famiglia nome e cittadinanza. Ai Due Palazzi ha ritrovato vecchi compagni di malavita: i primi a dargli del matto — o peggio — per aver voluto tornare dietro le sbarre. A cercare qualcosa che, oltre a “libertà”, dall’8 dicembre ha il nome di “misericordia”.

Armand, invece, è albanese. E’ nato quando ancora a Tirana c’era la dittatura comunista, è fuggito in Grecia, è approdato in Italia, è risalito fino al Veneto: dove ha trovato dei parenti, ma anche una banda di giostrai. Che gli ha indicato una scorciatoia per il suo gioco preferito: le auto truccate. Buone per divertirsi, per fuggire alla polizia dopo un colpo, per fare incidenti spettacolari da cui uscire vivi per miracolo: e finire poi in carcere. Lì vede gente che va alla messa cattolica e poi sorride, sta bene. E’ attratto soprattutto dal rito dell’eucaristia e un giorno si comunica anche lui: e anche lui, dopo aver ricevuto “quel pezzetto di pane”, “sta meglio”. Poi ovviamente lo dice al cappellano, aspettandosi qualche obiezione alla nuova scorciatoia. Invece il commento è solo: “La prossima volta prima confessati”, cioè “entra veramente nella nostra comunione di fede”. Da allora la comunità cristiana del carcere non lo molla più: fino al battesimo, nel maggio scorso, con i suoi familiari fatti venire ritrovati e fatti venire appositamente.

Gaetano si vede che è quello che fa più fatica a parlare ma chi lo ascolta non fatica a intuire il perché: sta scontando un “ergastolo ostativo”, è detenuto di massima sicurezza, si è fatto perfino un periodo di 41-bis. “Ero in una cella vuota — racconta seduto a fianco di don Claudio — dove non si ha nulla e non si vede nessuno, mai. Di buono, con me e dentro di me, avevo solo le preghiere che avevo imparato a Poggioreale, da una suora che mi aveva strappato alla disperazione e agli psicofarmaci”. Anche adesso, dietro sbarre ancora formalmente destinate a non aprirsi mai, il dolore è forte, quotidiano: è la notizia di un padre che sta morendo e non si potrà neppure ricordare al funerale. E’ il sapere che c’è una famiglia con cui — oggi — è inimmaginabile qualsiasi ritorno alla “comunione”. Eppure — ed è lui che lo dice a don Claudio — la speranza nella misericordia è viva. Quella porta appena aperta dal suo vescovo per desiderio di Papa Francesco è ancora aperta, è sempre aperta.

(Antonio Quaglio)