— E’ un omone grande e grosso di un metro e novanta per un centinaio di chili con in cima alla testa una decorazione elaboratissima di simil-capelli (color arancione) che lo rende assolutamente impresentabile anche in periodo natalizio. 

Dice — abitualmente e con sempre maggiore frequenza — cose indicibili non tanto perché “politically incorrect” (questo andrebbe a suo onore ed a sostegno di una futura, eventuale causa di beatificazione), ma perché decisamente insensate e impraticabili. Quella di ieri è chiudere internet per strangolare la rete mediatica di Isis. 



Si potrebbe dire che ognuno ha i buffoni che si merita. Come accennato in altre occasioni, voi avete Grillo, noi Trump. Solo che Grillo nella vita il “buffone” l’ha fatto sempre. E l’Italia ha fatto di tutto per meritarselo. 

Ma Trump e l’America … sì, probabilmente l’America si merita Trump, ma liquidare Donald Trump definendolo un buffone è un po’ troppo sbrigativo. Costui si trova seduto su di un impero immobiliare-finanziario stimato nell’ordine di 4 miliardi di dollari. Un impero le cui fondamenta (immobiliari, ovviamente) le pose il padre, figlio di immigrati tedeschi, ma che il nostro Donald ha lanciato verso gli sconfinati cieli d’America. Giri per New York e trovi una Trump Tower qua, una là, una su, una giù… Mi ricordo quando capitai per la prima volta in una di queste torri. Quella della Quinta Avenue, interni rilucenti e scintillanti tutti fatti di marmo rosa di Carrara con tanto di cascatella interna e collegamento con Nike Town e Ibm Building. 



Insomma, costui non avrà costruito civiltà e nemmeno cattedrali, ma ha edificato e continua a farlo perché — come dice lui stesso — non è una questione di soldi, è una questione di essere sempre in gioco. E vincere, non far ridere la gente. Quattro miliardi di dollari, tre mogli, cinque figli e chissà quante towers dopo, Trump si lancia in politica dove aveva già fatto capolino tre anni fa. Si era affacciato, ne aveva sparate tre o quattro e com’era venuto se n’era andato. Non questa volta, this time he is here to stay, stavolta fa sul serio. 

Sul serio? C’è qualcosa di “serio” in quel che dice Trump? Direi di no. Non si può certo barricare l’America chiudendola ai “musulmani” e sigillandone il web, e non si può ricostruire un paese con acciaio, cristallo e marmo di Carrara. Pero Trump sta facendo breccia, e comanda i polls repubblicani con ampio margine sui contendenti. Contendenti i cui “contenuti” sono altrettanto miseri, ma non hanno gli apparenti pregi delle proposte di Trump: senso di urgenza, immediatezza, comprensibilità e semplicità. Alla confusione e allo smarrimento che regnano sovrani la demagogia di Trump risponde dicendo “Si fa così ed il problema si risolve!”. 



Il problema si risolve? Certo che no! Ma è la determinazione di quel “si fa così!” ed il fatto che ognuno possa capire “la soluzione” che fanno breccia nel malcontento generale. Oh! Finalmente uno che ci indica come muoverci! Cosa c’è di meglio di una soluzione semplice ad un problema grave? Tutti gli altri al confronto — Obama incluso — sembrano pesci bolliti. E lo sono. Trump non è un pesce bollito dall’occhio vitreo, è un pesce fritto che rischia di mandare in frittura tutto quel che lo circonda. 

Vedremo cosa succederà martedì prossimo alla grande battaglia campale dei candidati repubblicani. Vedremo se il pennacchio arancione del nostro Donald svetterà ancora una volta, se riuscirà ancora a dire le cose più indicibili dando voce ai più oscuri pensieri di un paese incerto e diviso, o se qualcuno riuscirà finalmente a metterlo in padella a suon di realismo, intelligenza e cuore. 

Abbiamo bisogno di uomini, non di pesci.