Giuridicamente il tribunale civile di Bologna ha svolto a pieno titolo il suo dovere garantendo ad una donna, cinquantenne e di Ferrara, l’impianto degli embrioni prodotti nel 1996 dal suo defunto marito e da allora crioconservati in laboratorio: ha infatti interpretato la normativa vigente e si è pronunciato favorevolmente per un intervento che — come sostengono le associazioni pro choice — permette alle donne di vedere riconosciuto il loro diritto ad accedere effettivamente alla fecondazione assistita.
Ma, al di là dell’ennesima partita legale e politica che si gioca attorno a questa sentenza, la domanda che forse deve interessare di più è un’altra e riguarda il contenuto della parola “felicità”.
Ogni persona, si dice, deve avere la libertà di essere felice come meglio crede e un pronunciamento di questo tipo, certamente, contribuisce alla felicità di questa donna. D’altronde, sostengono i più, che cosa si sarebbe dovuto fare? Eliminare quegli embrioni? Gettarli come si getta l’immondizia di casa?
Eppure tutte queste domande, benché legittime, aggirano il vero problema: quand’è che un uomo, o una donna, sono realmente felici? Oggi la felicità sembra ruotare attorno a tre verbi: avere, disporre e ottenere. L’uomo è felice quando ha quello che vuole, quando ne può disporre liberamente e quando ottiene dagli altri — e nella fattispecie dalla comunità civile — il riconoscimento del suo diritto ad avere e a disporre. La felicità, pertanto, è la piena soddisfazione dei propri desideri, è l’eliminazione di ogni bisogno, di ogni confine e di ogni negazione, al punto che bisogno, confine e negazione sono le parole contro le quali qualunque cultura evoluta cerca di lottare per progredire e prosperare.
Poco importa che la crescita dell’Io avvenga solo grazie ai bisogni che urgono, grazie ai confini che arginano e grazie alle negazioni che mettono in discussione il capriccio del singolo riportandolo nel contatto con la realtà stessa. Ciò che oggi conta è che tra il desiderio del singolo e le cose ci sia una prateria dove l’uomo possa correre per raggiungere, in qualsiasi momento e in qualunque modo, l’oggetto desiderato. Il dolore, la mancanza e il limite sono vissuti come dei veri e propri handicap cui liberarsi già dalla tenera età: al bambino, in effetti, non deve mancare nulla, non deve essere impedito nulla e non deve fare alcuna difficoltà.
Anche i novelli sposi vivono dentro questa pretesa: avere tutto, disporre di tutto, pretendere che gli altri li sostengano e li promuovano in tutto. Le nostre giornate sono schiave della smania di “essere riempite” e ossessionate dalla paura di “essere ostacolate”, così che il marito che non è come piace a noi, la suocera che è da accudire o i figli che esigono troppo diventano, automaticamente, i nemici del nostro stesso cammino umano, della nostra felicità.
La giovinezza e la vecchiaia, poi, completano tristemente questo quadro: il piacere e il successo sono considerati come un qualcosa che mi deve essere garantito, di cui io posso pienamente disporre e che gli altri sono in dovere di offrirmi senza limitazione alcuna. L’essere umano che vive in Occidente è preda di una sorta di “sacra ingordigia” che nessuno può permettersi di contestare, pena l’accusa di essere un arretrato e un oscurantista. In barba a tutti quei “no” che ci hanno fatto crescere e capire qualcosa di più di quello che siamo e del perché siamo stati fatti.
Il tempo presente non si contraddistingue quindi per l’assenza di una domanda vera sulla vita, ma per una società che impedisce — attraverso le sue strutture e le sue istituzioni — il formarsi stesso di una domanda, l’esprimersi di un intento o di una vera necessità. Sentendoci padroni di tutto, ci ritroviamo a non avere davvero più niente di nostro e tutto ci sfugge, tutto sembra destinato a essere rincorso dai nostri rimpianti e dalle nostre ossessionanti incertezze nell’attesa che ci sfugga definitivamente, lasciandoci ancora più ingordi e soli.
In questo orizzonte gli altri, i figli, i gesti della vita, si riducono a oggetti da mettere a posto e manipolare affinché non disturbino, affinché non mettano in discussione nemmeno uno iota della nostra esistenza. In ultima istanza, alla radice di questo atteggiamento di fondo così delirante e autolesionista sta effettivamente il terrore supremo di entrare in contatto, di sentire davvero, il dramma della realtà e la nostra incapacità ad accoglierlo e accettarlo. Nietszche una volta disse: “Quando gli uomini vollero smettere di sentire il dolore dell’esistenza, allora cominciarono a spiegarlo”. Oggi, aggiungiamo noi, siamo già oltre: questo dolore abbiamo cominciato a fermarlo. Pieni dei nostri discorsi e dei nostri ragionamenti, codifichiamo leggi e mettiamo a punto prassi che possano bellamente evitarci la fatica del “mestiere di vivere”, illudendoci che, potendo fare tutto, Tutto diventi più vicino, più amico, più vero.
Così un tribunale italiano autorizza una donna a giocare con i suoi embrioni, così — ciascuno di noi — si autorizza, in nome del proprio potere, a farsi sempre tornare i conti, a non ammettere mai che, alla fine, quello che a noi serve sono solo gli occhi di un Padre e le carezze di una Madre. Meglio tacerlo, meglio far finta di nulla, meglio sommessamente continuare a credere di essere le eterne vittime di una divina ingiustizia.