L’intervista al caposala “cattolico” dell’ospedale Careggi di Firenze pubblicata su Repubblica di ieri, sostanzialmente sostiene che oggi, almeno nel reparto in cui lui opera, verrebbe praticata regolarmente una forma di eutanasia  “silenziosa”, frutto di un atteggiamento di “buon senso” che unirebbe gli operatori sanitari ai parenti, in quei casi dove l’assenza di una qualsiasi prospettiva terapeutica rende “futile” proseguire trattamenti farmacologici e/o di supporto intensivo al paziente. 



Ma questa non è eutanasia: questa è una decisione che talora bisogna assumere dentro il percorso di cura del paziente, una volta constatata, sempre in modo multidisciplinare e collegiale e caso per caso, l’inutilità di proseguire trattamenti farmacologici e/o supporti intensivi.

E’ significativo sottolineare che la necessità di questa “valutazione collegiale” trae le sue radici da due osservazioni. 



Da un lato la difficoltà (soprattutto nelle fasi acute o post acute della patologia), di definire in modo accurato la prognosi e la risposta del paziente, dall’altra da un’esigenza assoluta per chi esercita la propria professione in modo cosciente (indipendentemente dalla fede che pratica) di condividere decisioni così difficili, essendo consapevoli che lo scopo della medicina è il bene della persona anche quando la possibilità della guarigione sembra non esserci più. 

Non credo che in un grande ospedale con la tradizione del Careggi possa invece accadere quanto descritto dal caposala: sguardi ammiccanti, parole non dette tra operatori e parenti, una spruzzata di buonismo (meglio se cattolico), la descrizione della fragilità dei genitori rispetto allo sguardo più cinico di generi e nuore e poi via, pronti al grande salto. 



Ma alla fine dell’articolo (che non si capisce come possa avere avuto così grande risalto su Repubblica) tutto diventa chiaro! Eccolo, il richiamo allo scopo vero dell’intervista: la rivendicazione del diritto a decidere di terminare la propria vita e l’invocazione di una legge ad hoc. 

Ha scritto Angelo Panebianco, sul Corriere nel 2009, che la legge non è lo strumento più adatto per affrontare una realtà così difficile e così complessa come quella della sofferenza di ogni singolo uomo, e dell’esperienza che lo avvicina ad altri uomini che, per professione, hanno scelto di prendersene cura, o che a lui sono legati per legami di affetto. 

Meglio astenersi dalla tentazione della semplificazione di una legge. 

Certo, questo pone tutti noi di fronte al dramma del significato della nostra vita, e del suo legame misterioso con gli altri esseri umani, e con il Destino. 

Forse può aiutarci quanto diceva Leopardi nello Zibaldone: “Questo malato è assolutamente sfidato e morirà entro pochi giorni. Per assisterlo in questi giorni i suoi parenti si scomoderanno realmente nelle sostanze; essi soffriranno danno vero anche dopo morto il malato. Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se lo assisti. Che cosa dice la natura? Sei un barbaro ed uno scellerato se per assisterlo non fai e non soffri il possibile. E’ da notare che la religione si mette dalla parte della natura”.

Per chi ha provato l’esperienza della sofferenza o partecipato seriamente a quella di altri, la domanda di Leopardi ancora oggi costituisce una grande provocazione. 

Chi è l’uomo perché te ne curi?