Le motivazioni addotte dal Tribunale del Riesame di Catania per giustificare il rigetto della richiesta di scarcerazione presentata dall’avvocato di Veronica Panarello, accusata di aver ucciso il proprio figlio Loris il 29 novembre scorso a Santa Croce Camerina, hanno provocato un comprensibile sgomento, e non solo in chi crede nell’innocenza della donna. 



Il ruolo di quell’organo giudiziario, infatti, dovrebbe limitarsi a vagliare se sussistano pericoli di fuga, reiterazione del reato o inquinamento delle prove da parte dell’imputato, in base alle prove raccolte dagli organi inquirenti e alle motivazioni presentate dal Gip.

Se è vero quanto riportato dalla stampa, i giudici del Riesame che avrebbero dovuto formulare un parere ragionato e coerente dopo avere esaminato gli indizi e le ragioni presentate dal Gip nel decreto di fermo, si sarebbero invece esibiti in una plateale quanto impropria pseudo-perizia psichiatrica, non suffragata da alcun parere specialistico, e in una descrizione del carattere dell’imputata basata su convincimenti personali di cui non si conosce il fondamento.



Giudizi che suscitano perplessità non solo perché prevaricano le competenze assegnate, ma soprattutto per la loro incredibile illogicità e arbitrarietà. La Panarello avrebbe infatti “una elevatissima capacità criminale”, avrebbe agito “con agghiacciante indifferenza, da lucidissima assassina manifestando una pronta reazione al delitto di cui si è resa responsabile” con la “volontà di organizzare l’apparente rapimento del figlio Loris”. Insomma, avrebbe quindi una capacità criminale, una determinazione e una lucidità da fare invidia al più esperto dei sicari,  ma al tempo stesso avrebbe manifestato “una totale incapacità di controllo della furia omicidiaria”. 



Essi stessi non sembrano notare la contraddizione  insita in questi giudizi, giacché non si capisce se a loro parere la donna abbia agito in base ad un impulso improvviso oppure se abbia meticolosamente organizzato l’omicidio e il depistaggio. Infatti, nell’ipotizzare un possibile movente si legge: “L’indagata ha agito in preda a uno stato passionale momentaneo di rabbia incontenibile per il fallimento del piano mattutino che, evidentemente, quel giorno non prevedeva l’ingombrante presenza del suo primogenito”.

Affermazioni infarcite di aggettivi spietati e ridondanti che sembrano indirizzate ad una folla obnubilata e forcaiola, non dissimile da quella che si recava a gioire delle sofferenze del condannato in tempi che oggi definiamo bui e che risvegliano l’inquietante ricordo del clima da Auto da Fè creato dalla Santa Inquisizione.

I giudici del Riesame, nelle loro motivazioni, sembrano ricalcare le stesse incongruenze contenute nel decreto di fermo firmato dal Gip, che avalla il flebile impianto accusatorio elaborato dagli inquirenti.

Affermando di ritenere valida la ricostruzione della Procura, il Gip di Ragusa che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare, ha infatti usato anche lui una formulazione che si contraddice da sé, in quanto motiva l’arresto scrivendo che la Panarello è “incapace di controllare gli impulsi omicidi”. Questo significa che la donna avrebbe agito in base ad un raptus improvviso e incontrollabile, il contrario di quanto emerge nella ricostruzione del delitto, in cui viene dipinta come una assassina scaltra e avveduta che esegue il delitto come fosse una vera e propria esecuzione, pianificando ogni dettaglio e occultando il cadavere, e recandosi poi al corso di cucina a Donnafugata per crearsi un alibi.

Nel documento di fermo, inoltre, si legge che l’imputata è accusata di omicidio volontario ma al tempo stesso, secondo gli inquirenti, avrebbe premeditato l’omicidio del figlio recandosi persino a fare un sopralluogo a prima mattina per verificare dove scaricare il cadavere del bambino dopo averlo ucciso. Con questo proposito lo avrebbe fatto salire in auto per portarlo a scuola e, 50 secondi dopo, lo avrebbe fatto ridiscendere dandogli le chiavi di casa, perché aveva già pianificato l’omicidio nei minimi particolari. Questo convincimento è basato su l’immagine sfocata di una sagoma indistinta, ripresa da una telecamera privata di sorveglianza, che un esperto di fama internazionale ha già escluso possa appartenere a Loris in una perizia richiesta dalla difesa, invertendo così l’onere della prova che sarebbe spettata all’accusa.  

Nell’indirizzare i sospetti degli inquirenti verso la giovane madre hanno indubbiamente giocato un ruolo fondamentale le dichiarazioni della madre dell’imputata e soprattutto della sorella Antonella, che alla domanda: “Cosa pensa riguardo la morte di Loris?” aveva risposto senza esitazione: “Sebbene non abbia alcuna prova non ritengo di poter escludere che mia sorella possa essere coinvolta nella morte del bambino o che stia cercando di coprire qualcuno.” Entrambe le donne  hanno successivamente ritrattato completamente le loro accuse, rivolgendole addirittura ad altri e dimostrando così scarsa attendibilità.

Eppure, appare evidente che anche i giudici del riesame siano stati influenzati dai pareri contenuti in alcuni stralci dei verbali inclusi nel decreto di fermo, dai quali si evincerebbe l’instabilità psichica di Veronica Panarello e la sua tendenza a mentire e ad inventare storie per richiamare l’attenzione su di sé. Nel decreto di fermo si legge: “Ad avallare il problematico quadro psicologico della Veronica, soccorrono le dichiarazioni della sorella Panarello Antonella del quale di riporta integrale stralcio”.

Ma, sorprendentemente, né il Gip né i giudici del Riesame sembrano aver notato l’evidente contrapposizione tra le seguenti asserzioni delle due donne:

Alla domanda dell’inquirente: “Lei e i suoi fratelli, siete figli naturali di vostro padre Panarello Francesco?” Antonella risponde: ” Veronica, sin da quando i miei genitori si sono separati, afferma che io e i miei fratelli non lo siamo; ciò non corrisponde alla realtà: io, Veronica e tutti i miei fratelli siamo figli naturali di Francesco Panarello. In ordine alla domanda postami debbo però precisare che Veronica è convinta di essere figlia di qualcuno di Grammichele del quale non mi ha mai detto il nome”.

Ma proprio nello stesso atto, poche righe sopra, la madre dichiara: “In relazione a mia figlia Veronica, debbo dire che prima che nascesse io ebbi una relazione con tale Castronuovo Salvatore e non posso escludere che dalla relazione fosse nata Veronica…Nell’anno 2005, quando mia figlia compì 16 anni, le confidai che poteva esservi la possibilità che il suo vero padre fosse Castronuovo che vive a Grammichele”.

Veronica non aveva quindi immaginato o inventato questa circostanza, eppure il Procuratore ha elencato tra i moventi dell’atroce gesto: “Il fragile quadro psicologico della donna non disgiunto da un vissuto personale di profondo disagio nei rapporti con la famiglia d’origine quale possibile concausa della determinazione omicida.” Senza che sia stata fatta alcuna perizia da parte di uno psichiatra. 

L’impressione generale è che le indagini siano state svolte a senso unico, partendo da una ipotesi basata sulla testimonianza di parenti ostili e aggiustando elementi, peraltro assolutamente banali di vita quotidiana, per farli combaciare con questa tesi; in quest’ottica persino gettare un sacchetto della spazzatura negli unici cassonetti disponibili, stendere gli indumenti sul balcone o non ricordarsi l’esatto percorso effettuato diventano “certezza” di colpevolezza. 

Così come appare incomprensibile la definizione “modalità altamente anomala e sospetta” riferita alla  circostanza  in cui Veronica Panarello, venuta a sapere che le fascette da elettricista richieste dal figlio la mattina in cui è stato ucciso non servivano a svolgere un lavoretto in classe come aveva dichiarato lui, si era allarmata e aveva chiesto di consegnarle agli inquirenti come un possibile indizio. Perché è invece assolutamente normale che una madre, alla quale hanno appena ucciso il figlio strangolandolo, si allarmi se scopre che quella stessa mattina le aveva mentito pur di portare con sé la potenziale arma del delitto. Conosceva l’uso improprio delle fascette? Infatti, pare vengano usati per giochini sadomaso? Secondo i giudici del riesame la consegna delle fascette sarebbe addirittura un tentativo di depistaggio.

Ma è stato chiesto alle altre mamme se per caso i loro figli avevano chiesto anch’essi quelle fascette dicendo che servivano per la scuola?  Perché questo aprirebbe diversi scenari, dal gioco finito in tragedia al pedofilo amico anche di altri ragazzini.

E soprattutto hanno verificato la compatibilità di quelle fascette con la circonferenza del collo del piccolo Loris? Perché le fascette usate abitualmente nelle case non hanno una lunghezza sufficiente a cingere il collo di un bambino. Inoltre è impossibile reciderle con delle forbicine a punta, come sostenuto dagli inquirenti, senza affondarle nella pelle procurando una vistosa ferita che avrebbe lasciato tracce ematiche visibili con il Luminol.

Come spiegare, inoltre, l’assenza di qualsiasi traccia ematica all’interno dell’appartamento o nel portabagagli dell’auto. La morte per strangolamento comporta la fuoriuscita di liquidi organici che non si possono rimuovere semplicemente con uno straccio. E, in ogni caso, avendo compiuto tutto il delitto in meno di 20 minuti, secondo gli inquirenti, quando avrebbe avuto il tempo di pulire accuratamente l’appartamento?

Perché gli inquirenti affermano che il GPS installato dalla compagnia di assicurazione nell’auto della Panarello, pur essendo funzionante, non ha rilevato alcun tracciato?  Perché sostengono che la madre non è visibile dalle telecamere della scuola quando sanno benissimo che non erano in funzione?  Perché non sono state prese in considerazione le testimonianze della vigilessa che afferma di aver visto l’auto della Panarello vicino alla scuola di Loris e della donna che ha visto alle 8.40 un bambino molto simile al piccolo Loris vagare solo per strada? Perché non sono stati acquisiti i video delle telecamere lungo il percorso indicato dalla Panarello, che quindi avvallerebbero la sua dichiarazione, ma si preferisce fare affidamento su quelle che non la riprendono deducendone che “non essendo lì era altrove”? 

Tutte domande che si sono poste persone semplicemente dotate di un minimo di buon senso, numerosi dubbi ai quali gli inquirenti non solo non hanno saputo dare una risposta ma che non sembrano nemmeno averli sfiorati. 

Con buona pace dei cittadini che comprendono che qui non si parla più solo dei diritti di Veronica Panarello ma del pericolo di legittimare un sistema che potrebbe colpire indistintamente chiunque di noi.