Ogni famiglia ha bisogno di un padre. Ne parlava ieri Papa Francesco nella sua catechesi del mercoledì. Un padre che sia vicino ai figli, che condivida tutto, gioia e dolori, fatiche e speranze. Un buon padre che sa attendere e perdonare, dal profondo del cuore. Un padre misericordioso come quello della parabola del figliol prodigo. E a me è venuto in mente un altro padre che in questi giorni fa parlare. Un padre che ha dato il sangue per la sua famiglia allargata, il suo popolo, la sua terra. E che finalmente sarà proclamato beato.
Oscar Arnulfo Romero sarà il primo santo de El Salvador. Paese in festa per il riconosciuto martirio dell’arcivescovo di San Salvador, icona della Chiesa latino-americana, assassinato sull’altare, mentre benediceva il pane e il vino dell’Eucarestia, il 24 marzo 1980. Ora nella cattedrale la sua tomba è meta di pellegrinaggi, i suoi poveri versano le lacrime di gioia, mentre gerarchie ecclesiastiche e vertici istituzionali fanno a gara nell’omaggiare il pastore dei poveri.
Mons. Gregorio Rosa Chavez, vescovo ausiliare di San Salvador, ha dichiarato alle telecamere che già si guarda alla canonizzazione a Roma, anche se non è stata ancora decisa la data di beatificazione. Persino il presidente di El Salvador, Sanchez Ceren, si è fatto riprendere in pompa magna mentre si gloriava della notizia “importante per il paese e per l’intero mondo”.
Orgoglio tardivo. Non è un mistero che la figura di Romero, negli anni, ha dovuto subire pesanti attacchi. Una persecuzione feroce in vita, culminata con il sangue sull’altare, in una Chiesa devastata dalla perdita e poi i sospetti, le lentezze e gli arresti nel processo di beatificazione, le controverse interpretazioni di un’azione pastorale sempre evangelica, profondamente conciliare, impastata di carità.
Mons. Rafael Urrutia, vicario per la pastorale dell’arcidiocesi salvadoregna, afferma candidamente che “è ovvio che alcuni lo amino e altri no”. Ma come si dice proprio nei sacri palazzi, Roma locuta, causa finita. Vale a dire Roma ha parlato e il caso è chiuso. Ma siamo proprio sicuri? Certamente la definizione di martire è un traguardo sudato, che tutti dovranno accettare per fede. Ma i 22 anni di travagliato iter processuale raccontano una verità scomoda. Che l’evidenza di un pastore ammazzato in odium fidei mentre alzava l’ostia per la consacrazione ha faticato ad imporsi. Che le letture ideologiche di un’esistenza spirituale complessa e tormentata hanno oscurato e ritardato il riconoscimento di una testimonianza esemplare. Proprio il postulatore della causa di beatificazione di Oscar Romero, mons. Vincenzo Paglia, ha spiegato ieri durante un’affollata conferenza stampa che bisognava attendere un papa latinoamericano per mettere la parola fine ad un’indagine andata avanti per due decadi, tra alti e bassi, e molte obiezioni interne.
Ostacoli nati, per sua ammissione, da questioni ideologiche. “Alla fine non è semplice capire che il Vangelo o è annunciato ai più poveri o non è Vangelo” ha spiegato l’attuale presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, riferendosi ai tanti tentativi di appiccicare facili etichette ad un uomo che si era “convertito” ai poveri e alla loro causa, andando contro porzioni di chiesa fin troppo schierate con le oligarchie salvadoregne e l’ordine imposto dalla Giunta militare che terrorizzava il paese.
Negli ultimi anni il tormentone del riconoscimento della santità di Romero ha accompagnato più di un pontefice, e se Giovanni Paolo II più volte con gesti e parole ha ribadito la proprietà esclusiva del santo (“Romero è nostro! Romero della Chiesa!” ripeteva spesso), Benedetto XVI il 20 dicembre del 2012 decise di imperio lo sblocco della causa e diede una spinta decisiva alla ripresa dell’itinerario ordinario.
Ma senza dubbio nasce dal magistero di Francesco la novità della felice conclusione. E’ un’indicazione precisa della volontà di Bergoglio di portare all’attenzione del mondo una Chiesa martire per i poveri. Non è un caso che proprio ieri sia stato annunciato anche l’avvio della causa di beatificazione di Padre Rutilio Grande, gesuita ucciso nel marzo del 1977, sempre in Salvador, per il suo impegno tra i campesinos. Fu la sua morte a “convertire” l’arcivescovo Romero, a dargli la forza per diventare padre di un popolo e di una nazione segnata dalla violenza e dall’ingiustizia sociale. La notte di veglia davanti al corpo dell’amico e dei due contadini trucidati vicino al piccolo villaggio di Aguilares, lo costrinsero ad aprire gli occhi su una situazione insostenibile, in cui la chiesa veniva perseguitata per l’impegno affianco ai poveri. Fu allora che iniziò il calvario del “mite” Romero, il suo travaglio, schiacciato tra una oligarchia che mal digeriva la sensibilità ecclesiale nata dal Concilio Vaticano II e la guerriglia marxista. E che considerava sovversivi, intellettuali come Rutilio Grande, preti che abbandonavano le cattedre per condividere la sofferenza dei contadini stagionali.
“La verità del Vangelo non è nei principi, è nella passione per i più deboli” — ha dichiarato mons. Paglia — “Gesù non è un’ideologia. Gesù è uno che ha speso la vita coi malati, coi peccatori, le prostitute, i poveracci. Ecco, la Chiesa o riprende a far questo oppure è destinata a restare una sorta di residuo folklorico”.
Papa Francesco ci sta facendo capire che a lui il folklore proprio non piace. Tanto meno a Roma.