Il 6 febbraio la Chiesa ricorda il primo santo giapponese, Paolo Miki, che venne martirizzato insieme ad altri suoi compagni cristiani durante la prima persecuzione del paese del Sol Levante. Paolo Miki nacque a Kyoto nel 1556 da una famiglia benestante e all’età di cinque anni ricevette il battesimo. A quel tempo il cristianesimo era una religione nuovissima, San Francesco Saverio era giunto in Giappone a portare la lieta novella solo nel 1549 e il numero degli adepti andava aumentando. L’imperatore non poteva opporsi in alcun modo alla diffusione del nuovo credo poiché godeva di un potere solo simbolico, ma neppure lo shogun, il vero capo politico e militare, non vedeva alcun pericolo nel cristianesimo. Il popolo, poi, aveva accolto con gioia la fede in Cristo e nell’arco di pochi anni erano divenuti numerosi i missionari giunti dall’Europa. I genitori di Paolo erano ferventi fedeli e il bimbo, dopo un’istruzione di base, entrò nel collegio dei gesuiti per completare la sua educazione. Dopo che il giovane ricevette la chiamata, a 22 anni, decise di rimanere nel collegio per compiere gli studi teologici che l’avrebbero portato a ricevere l’ordine. Studioso e diligente, Paolo incontrava difficoltà solo nello studio del latino, una lingua troppo diversa dal suo idioma, ma ciò non lo ostacolò nel suo percorso alla ricerca di Dio. Si specializzò nello studio delle religioni orientali per dedicarsi poi alla predicazione presso le genti di fede buddhista.



La sua opera missionaria era coronata da un successo dietro l’altro, il suo modo di fare gentile e affettuoso sapeva attirare le simpatie e la sua parola sapeva convincere che la fede in Cristo era l’unica ancora di salvezza. Lo shogun Hideyoshi per anni mantenne un atteggiamento bonario nei confronti dei cristiani, ma poi le cose iniziarono a cambiare e divenne acerrimo nemico della nuova religione. Il suo cambiamento non fu repentino e fu dettato da diversi motivi. Innanzitutto temeva che la fede giunta da tanto lontano minasse l’unità nazionale, che già si stava indebolendo per le continue lotte tra i feudatari locali. Era poi accaduto più volte che marinai europei, e dunque cristiani, avessero tenuto dei comportamenti minacciosi e aggressivi nei conforni dei giapponesi, infine i dissidi tra i vari missionari che predicavano la parola di Cristo contribuirono a convincerlo che il cristianesimo fosse un male che andava sradicato dall’arcipelago. Scatenò allora una persecuzione di portata locale e Paolo Miki venne arrestato a Osaka nel 1596.

In carcere, il religioso si trovò in compagnia di altri missionari, tutti europei, tre gesuiti e sei francescani e ad essi si aggiunsero 17 giapponesi laici, che avevano aderito all’ordine terziario francescano. Paolo e i suoi compagni di prigionia vennero condannati a morte e, quando i prigionieri si ritrovarono sulla collina di Tateyama, nei pressi di Nagasaki, innanzi alle croci già infisse nel terreno, Paolo prese la parola e disse al pubblico convenuto per assistere alle esecuzioni di essere giapponese e di essere orgoglioso di essere cristiano. Assicurò il perdono ai suoi carnefici e quindi tutti iniziarono a pregare e a intonare i salmi, finchè i carnefici non estrassero le spade e li uccisero, dopodichè i loro corpi vennero esposti sulle croci. Papa Urbano VIII beatificò Paolo e suoi compagni nel 1627, quindi papa Pio IX, nel 1862 li proclamò santi. Già anni prima però Paolo era stato lo splendido esempio per un quindicenne dalla forte fede: Daniele Comboni. Il ragazzino, nel 1846, proprio leggendo le ultime parole pronunciate dal religioso giapponese prese la sua decisione di divenire missionario e dedicò tutta la sua vita alla conversione dei popoli africani.

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